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IL COMMENTO

Pasqua, la luce del Risorto nel buio della morte

Eccome come deve essere inteso il messaggio biblico riguardo la Resurrezione

Di Massimo Naro |

I testi biblici che la liturgia cristiana proclama nei giorni della Pasqua, sia quelli tratti dai rotoli d’Israele sia quelli tratti dai vangeli e dagli altri scritti apostolici, danno l’impressione di proclamare un evento luttuoso più che una lieta notizia. Riecheggiano antiche profezie di morte, che annunciavano castighi immeritati e impietose violenze a carico di un servitore buono e fedele, assolutamente innocente eppure abbandonato dal suo protettore al risentimento e all’incomprensione di giudici ingiusti. In una pagina suggestiva di Isaia il destino di quell’uomo sofferente era preconizzato con l’immagine di un agnello condotto al macello. E nella Lettera agli Ebrei, un importante documento del Nuovo Testamento, quel destino servile è rievocato come una vera e propria vocazione filiale, con la quale Gesù è chiamato da Dio Padre suo a «imparare l’obbedienza dai patimenti» che deve subire.

La retorica di qualche predicatore fermo al medioevo, incapace di smarcarsi dal significato che a questi brani veniva attribuito indebitamente al tempo della lotta per le investiture – quando l’imperatore e il papa si contendevano vassalli e valvassori – scivola spesso nel loro fraintendimento, parlando di un’obbedienza cieca a cui dovrebbero sobbarcarsi sempre e soltanto gli altri. Si finisce così per alimentare un fatalismo che molto assomiglia a quello di chi considera, con sensibilità premoderna, l’avvicendarsi delle stagioni mettendo in conto che i guai sono inevitabili e sperando semmai che la brutta nottata dovrà pur passare.

Una sola parola

Il messaggio biblico a riguardo della Pasqua, enfatizzato nella liturgia di questi giorni di festa, dev’essere invece inteso in virtù di ben altro criterio interpretativo. Quello che già il salmista suggeriva: «Una parola ha detto Dio, due ne ho udite». Il Dio di cui le Scritture parlano ha una sola parola, un solo Verbo. Il quale, però, nell’incarnazione dimostra tutta la sua eccedenza di senso, correndo paradossalmente il pericolo di non essere capito appieno dagli uditori umani, che sentono annunciare l’amore del Padre e si fermano a prospettare il rigore di un padrone, sentono parlare della visita del Signore e si limitano a (far) temere le minacce di un faraone.

Non può che derivarne, ancora ai nostri giorni, un triste sentimento di sconfitta, lo stesso che spingeva – ormai al mattino di Pasqua – gli apostoli a rintanarsi nel cenacolo e i due discepoli di Emmaus a fuggire lontano da Gerusalemme. Il Risorto dovette accompagnarsi con loro per mostrare che davvero era risuscitato, non a dispetto del fatto che era morto, ma proprio grazie al fatto che era stato ucciso. L’unico Verbo, nella condizione umana, diventa il Crocifisso Risorto: è questa la pienezza della sua verità. Ed è questo il motivo per cui la risurrezione del Crocifisso è il lieto annuncio che s’irradia a Pasqua.Ma occorre una profonda consapevolezza credente per accettare come vera una notizia del genere, quando ogni evidenza storica ci dice piuttosto che siamo circondati dalla morte. Permane, difatti, nella società in cui viviamo, un’angosciante prolissità mortifera, cioè una pletora di parole dal timbro disperato, dal tono amareggiato, tramite cui la morte si promette a ognuno sotto forma di violenza bellica, di deterioramento ecologico, di errore irrecuperabile, di malattia incurabile, di perdita del lavoro, di povertà economica, di miseria morale, di mancanza d’affetto, di vuoto esistenziale.

La buona notizia

Eppure, in quest’orizzonte buio, la risurrezione di Cristo rappresenta la buona notizia che impegna i cristiani a farne un annuncio credibile, vale a dire un annuncio che abbia la qualità della testimonianza personale. Ciò non vuol dire aver visto con i propri occhi il Cristo risorgere dal sepolcro: una cosa del genere non accadde neppure ai primi discepoli, i quali videro morire il loro Maestro sul Golgota, ma non lo videro nell’atto di risuscitare. Fecero tuttavia l’esperienza di incontrare, dopo la morte del loro Maestro, un tale che per il modo in cui parlava e operava in mezzo a loro, non poteva che essere proprio quel loro Maestro che avevano visto morire in croce. Non fu certamente facile, per loro, riconoscerlo. Anche perché, incontrando Gesù dopo averlo visto morire sulla croce, non lo rivedevano del tutto uguale – nelle sembianze fisiche – rispetto a come lo avevano conosciuto prima. Ritrovandoselo all’improvviso davanti, i discepoli non riuscivano a riconoscerlo immediatamente, giungendo persino a temere di aver a che fare con un fantasma.

Occhi nuovi

Questo particolare narrativo prova che il Risorto è lo stesso Gesù di sempre, ma esige di esser guardato con occhi nuovi. Cioè con lo sguardo della fede, capace di percepire in quel Crocifisso Risorto un inimmaginabile modo di esercitare la signoria divina, non come rapina e abuso dei beni altrui ma come offerta di sé, non come arroganza ma come mitezza, non come esercizio del potere ma come servizio, non come autorità che annichilisce ma come autorevolezza che responsabilizza gli altri. Il segreto per riconoscere il Risorto, per sperimentarne realmente l’incontro e renderne una testimonianza attendibile, sta in questa conversione della mentalità e dell’intelligenza, in questo cambiamento di visione del mondo e della storia, in questa nuova interpretazione del senso del vivere e del morire. Fare una tale esperienza equivale a immedesimarsi nel Crocifisso Risorto, che trasfigura la propria umanità attraversando il crogiuolo del fallimento, della sofferenza e della morte.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA