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Sentenza Ciancio, lo strabismo giudiziario

Gli acrobatici distinguo per mettere nel mirino la linea editoriale ma non la redazione. Che ha lavorato senza farsi distrarre dalle accuse e dai veleni

Di Antonello Piraneo |

Di fronte a una sentenza non si esulta. Neanche di fronte a questa sentenza. Intanto perché un’aula di giustizia non è una curva di uno stadio: si consultano i codici, non si sventolano bandiere. E poi perché l’attesa è stata come anestetizzata dalla certezza di avere sempre creduto nell’innocenza del nostro editore, per la conoscenza della persona e dei fatti ma anche sulla scorta di pronunciamenti intermedi e paralleli: l’archiviazione per Mario Ciancio Sanfilippo era stata avanzata una volta dalla stessa Procura che poi ne ha chiesto la condanna a 12 anni e un gup pronunciò sentenza di non luogo a procedere (annullata poi dalla Cassazione e giudizio disposto da altro giudice), senza contare la decisione della Corte d’appello e poi la pietra tombale posta dalla Suprema Corte sulla misura di prevenzione. Ora lo ha statuito un tribunale: Ciancio non ha concorso alle attività della mafia, non c’è prova del teorema accusatorio.

Una sorta di brocardo dice che una sentenza non si commenta, specie quando se ne conosce solo il dispositivo. Giusto. Ma l’intera vicenda merita una riflessione a prescindere dalle motivazioni che seguiranno e nel pieno rispetto del lavoro dei magistrati. Questa inchiesta arrivata a sentenza dopo 14 anni dalla sua apertura – un arco temporale, nel corso del quale l’imputato è passato dalla terza alla quarta età – ha provato a leggere con gli occhiali di oggi fatti di ieri l’altro, riavvolgendo il nastro sino ai primi anni Ottanta, guardando a tutt’altro contesto e producendo così uno strabismo giudiziario. Punto. Anzi, punto e virgola.Perché c’è da dire anche che con Ciancio si è di fatto inteso processare non una singola persona ma il rappresentante più in vista di una città, di un pezzo di storia siciliana. Lo si ammetta, almeno adesso, a giochi fatti in primo grado: con lui sarebbe stata condannata una comunità, perché in grandissima parte cieca, sorda e muta per mezzo secolo di fronte a un sistema di relazioni, e di potere, giudicato deviato, perverso, mafioso.

In tanti sin dall’apertura del primo faldone del caso Ciancio commentavano, vigliaccamente e a mezza voce, tra un’elegante conviviale e una dotta conferenza: «Quello che è successo a Ciancio poteva succedere a tanti altri di noi». Invece è successo a lui perché il suo era lo scalpo più ambito, non essendo nessuno dei “tanti altri” amico di Carlo De Benedetti come di Gianni Letta, nessuno che fosse stato presidente della Fieg e vicepresidente dell’Ansa, successore di Alfio Russo al timone de “La Sicilia” e direttore di campioni di penna come Candido Cannavò o di intellettuali liberi e scomodi come Giuseppe Giarrizzo o Pietro Barcellona, l’anfitrione di Carlo e Diana nella sua tenuta tra gli agrumeti.

E sì, certo, Mario Ciancio Sanfilippo ha fatto affari, ha guadagnato tanto perso altrettanto e forse meno restituito al territorio, ha imperato, è stato potente, potentissimo, attraversando gli anni più bui in una terra complessa e obliqua come è e sa essere la Sicilia. Ma si viene condannati per una fattispecie di reato ben definita e non per una generica convinzione o per una maliziosa convenzione. Mario Ciancio Sanfilippo avrebbe meritato un dibattito, se del caso severo, sul ruolo che ha avuto nello sviluppo di Catania e della Sicilia, ma non un processo, come già scrivemmo senza nessun intervento censorio all’indomani del dissequestro dei beni e quindi anche della società che edita questo giornale. Un processo, a ben pensarci, per certi versi inutile: per tantissimi Ciancio non è mai stato imputato, figurarsi se colpevole; per pochissimi resta comunque il diavolo dell’informazione e dell’imprenditoria.Il giornale, dicevamo. Questo giornale che ha dato e dà spazio a TUTTI, anche a chi ne dice peste e corna. In maniera ondivaga “La Sicilia” è stata pietra angolare ma anche no del teorema accusatorio, con acrobatici distinguo: nel mirino dell’accusa c’è la linea editoriale ma non i giornalisti. Come se gli input dell’allora editore-direttore venissero raccolti da un’entità astratta e non da una redazione, come se venissero eseguiti dall’intelligenza artificiale. Peccato che ChatGpt nel perimetro temporale tracciato dall’inchiesta non esistesse ancora. Così agli atti dell’inchiesta sono finiti la gaffe del necrologio rifiutato allo sportello alla famiglia Montana ma non anche la durissima denuncia della fidanzata del commissario ucciso dalla mafia a Porticello; la maldestra maniera in cui fu pubblicata la lettera di Vincenzo Santapola dal 41 bis ma non le tante altre pagine in cui si parlava dei boss di Cosa Nostra; il superficiale invito a un cronista a chiarire quanto scritto su Pippo Ercolano davanti allo stesso boss, ma omettendo che quello stesso cronista ha continuato e continua a scrivere di Ercolano e delle altre famiglie mafiose. Di alcuni articoli sono stati evidenziati alcuni capoversi e sminuiti altri dandone un’interpretazione che si voleva penalmente rilevante.

Il bicchiere sempre vuoto, lo stesso da cui bevono i velinari delle procure. Si è anche taciuto che nel 1982 un giornalista come Nino Milazzo, trovando sponda in Candido Cannavò, perorò la causa di un comitato in difesa di Catania tacciata di essere «biecamente mafiosa» (cit.), stroncato dal suo allievo Francesco Merlo, contrario all’autoassoluzione della città. Attenti: il dibattito avveniva su queste stesse colonne, direttore Mario Ciancio Sanfilippo. Noi che a “La Sicilia” lavoriamo da quando non avevamo neppure il libretto universitario, contestammo il solo accostamento di questa testata a vicende di mafia e di mafiosità, come fatto dai magistrati nel giorno del sequestro della Domenico Sanfilippo Editore insieme con tutti gli altri beni di Ciancio. E lo abbiamo fatto di recente – più o meno a titolo personale, ma che importa – chiedendo di essere auditi dall’Ordine dei giornalisti, il nostro solo tribunale, trovando soddisfazione in una chiara Pec con cui si smentiva quando detto in aula dall’avvocato che rappresentava lo stesso Ordine, quindi anche noi giornalisti de “La Sicilia”.

Assecondati dai lettori, prime firme e collaboratori remoti, funzionari e poligrafici, tutti abbiamo continuato a indossare con orgoglio la maglietta de “La Sicilia”, senza farci distrarre dai veleni e per dare una volta di più autorevolezza alla testata, libera e indipendente. Mario Ciancio Sanfilippo anche per questo ha il dovere morale di dare continuità al nostro lavoro, seguendo il percorso che riterrà più idoneo. Ha una grande colpa il “direttore”: essere sempre stato spugna e carta assorbente, non avere mai reagito pubblicamente alle accuse e ai veleni, non avere spiegato, non avere ricordato quanti hanno bussato alla sua porta e neanche rivendicato di aver deciso lui la guerra di Segrate in favore di Scalfari contro Berlusconi, ritenuto un bivio per la libertà dell’informazione e quindi per la democrazia, cedendo le sue quote del gruppo “L’Espresso” a De Benedetti. Ha pagato per questo atteggiamento fors’anche arrogante, un po’ da Marchese del Grillo, lui che del garbo e dell’aplomb ha fatto una filosofia di vita, una cifra non solo stilistica.Per essere assolto ha dovuto attendere che si venisse a capo di quattordici anni d’inchiesta e di sette anni di processo, non escludendo l’appendice dell’appello. Ha trovato un giudice a Catania e non a Berlino. «Questo processo mi ha allungato la vita», ha detto e dice andando verso i 92 anni.Però, che pena.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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