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Il parlare muto di Veronica

Il parlare muto di Veronica

Di Silvana Grasso |

Ti lascio un bigliettino Loris, c’è scritto che devi fare i compiti tutti i giorni, che devi andare ascuola, tutti i giorni, che devi essere bravo con la tua mamma, tutti i giorni, che non devi stressarmi, anche tu. La vita mi ha stressata scartavetrata maciullata. Vedi? Ho poca carne ma tanta pena. Solo che la carne si vede, la pena no. Invisibile mi scorre dentro come un fiume, in onda la mia debole carne, anzi mi uccide, silenziosamente mi uccide, bimbo mio. Per oggi basta così, oggi è andata bene forse, ma non ne sono sicura. La mia memoria non contiene più che pochi minuti di vita, lampi di vita, eppure sono ancora una ragazza e tu, prima che te ne accorga, avrai i miei stessi anni. Oggi le rapide della vita mi hanno lasciata viva. Domani non so, Loris. Domani sarà arcobaleno per me, per me, oltre quel cespuglione di nuvole brune che il vallone fuoripaese ingoia come fai tu con il chewingum, anche se da sempre te lo dico che non devi ingoiarlo il chewingum. Non c’è un figlio che la ascolti, ora Veronica parla solo a sé, un parlare muto, ma forse da sempre ha parlato solo a sé, in un parlare muto. Non si sente la mareggiata del suo cuore che le carni imprigionano come un delinquente braccato e minaccioso. «Non si grida, Veronica», ripete a sé con la devota ansia di chi recita una «ave, o Maria» alla Madonna. «Hai una casa, finalmente, una famiglia tutta tua, finalmente, dei figli, finalmente, magiche creature partorite da te, Veronica, quand’eri poco più che una bambina, in un paese nuovo, dopo tanti troppi paesi vecchi e sconosciuti. Questo è tanto, questo è tutto, queste si chiamano radici. Essere una buona madre è tutto. Sarò una buona madre, giuro, anzi non giuro affatto, già lo sono, da sempre lo sono, una buona madre. Non ho tempo, ma vorrei andarci in palestra. Non ho tempo, ma vorrei andarci al bar, non ho tempo, ma vorrei farle quattro chiacchiere con un paio d’amiche, magari per telefono. Sì, lo faccio, scarica chiacchierare un po’. Ma chi chiamo? C’è forse qualcuno che potrebbe aver voglia d’ascoltare negli sconosciuti paesi dove ho imparato il nome di tre vie, due bar, la chiesa, la scuola. Null’altro. Vorrei, ma non posso, non ha un solo ricordo la mia memoria, non ha un milionesimo di giga come il cellulare, non ha che un’autonomia miserabile di qualche minuto. Stanotte ci penso, ci sarà pure qualcuno che potrò chiamare, magari prima lo cerco su facebook. Fa meno impressione che chiamare al telefono. Loris, dai, ripetiamo le tabelline. Allora: 3×6, 4×4? Su, quanto fa? Ecco, non hai ripassato, proviamo con la tabellina del due, che è più facile. Allora: 2 x 4? 2×9? ». Non risponde Andrea Loris, non ha ripassato le tabelline, non azzarda risposte, ha paura che lo sgridi. Eppure lo sapeva, fino a un paio di minuti prima, che tre per sei fa diciotto, e quatto per quattro sedici, come sapeva che due per quattro fa otto, e due per nove diciotto. «Ora rispondo io, così lo vedi che me le ricordo ancora le tabelline, perciò, 3xtre fa……. 2×4 fa…oddio non mi ricordo più, niente, proprio niente, la mia memoria non ha nemmeno l’autonomia d’un attimo. Forse, se esco da questo buio e vado incontro al sole, pare proprio estate oggi, mi tornerà un filino di memoria, almeno quel tanto per ricordarmi la tabellina del due e ripassarla assieme a te, amore mio, mentre andiamo a scuola».

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