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«La mia vita s’è fermata un anno fa ora voglio sapere chi l’ha uccisa»

«La mia vita s’è fermata un anno fa ora voglio sapere chi l’ha uccisa»

A un anno dall’omicidio di Maria Concetta Velardi, parla il figlio della vittima, Fabio Matà, che è parte lesa ma anche indagato. Il legale: «Un’unghiata doveva giustificare la riesumazione della salma»

Di Concetto Mannisi |

Dodici mesi. Da quel maledetto 7 gennaio sono passati praticamente dodici mesi. Eppure, nonostante il gran lavoro svolto fin qui dalle forze dell’ordine, la verità che tutti si attendono di conoscere non è ancora venuta a galla. Chi ha ucciso Maria Concetta Velardi al Cimitero di Catania? Chi le ha fracassato il cranio a pietrate, con inaudita ferocia? Era da solo? Aveva un complice? E qual è stato il movente che ha scatenato questa furia omicida? Tante domande in attesa di una risposta che tarda ad arrivare. E ciò sebbene l’autorità giudiziaria iscrisse, a tempo di record, cinque nomi nel registro degli indagati: Angelo Fabio Matà, 40 anni, figlio della vittima, nonché quattro soggetti che in quei giorni erano abituali frequentatori del cimitero e si sospetta possano avere avuto rapporti con la stessa Velardi: Michele Mascali di 66 anni, Agatino Dottore di 38, nonché una coppia di rom, rispettivamente di 36 e di 35 anni.   Tutti costretti ad un’attesa infinita. «Già, l’attesa – a parlare è proprio Fabio Matà, che in questa indagine figura come sospetto ma anche come parte lesa – Giorni, settimane, mesi trascorsi aspettando una risposta che poi, comunque, non servirà a restituirmi mia madre». «E, però – prosegue – è giusto che si sappia la verità, che un assassino in libertà venga assicurato alla giustizia. E che mi sia data finalmente una spiegazione: per quale motivo mia madre è stata uccisa».   Lei proprio non riesce ad immaginarlo? «Per nulla. Ed è pure per questo che soffro. Ad un figlio può accadere di perdere un genitore, ma vederselo strappato così è terribile. Nessuno può comprendere cosa si prova in casi del genere, nessuno… ».   La sua vita come è cambiata? «La mia vita si è fermata, in qualche modo, a quel 7 gennaio. Non esagero, è così…. Sì, c’è il lavoro a Maristaeli, c’è la mia fidanzata che mi ha sostenuto nei momenti più difficili e che continua a rappresentare un grande punto di riferimento, ma quel giorno è come se si fosse rotto un pezzo importante dell’ingranaggio di un motore. E non so se sarà mai possibile eseguire la riparazione».   «Prendete questa mia giornata – continua Matà – in cui sono reduce dal turno di notte. Sono andato al Cimitero per rendere visita alla mamma, a mio fratello ed a mio papà e sono tornato a casa. Per me la giornata si conclude così».   Ma ha mai incontrato gli altri indagati? Ha mai parlato con qualcuno di loro? E’ rimasto soddisfatto di come sono state condotte fin qui le indagini? «Delle indagini non voglio parlare. Posso solo dire che col mio difensore – l’avvocato Giuseppe Lipera – abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare per contribuire a fare emergere la verità. Certo, su alcuni punti mi sarei mosso in maniera diversa rispetto a chi sta procedendo ufficialmente, ma queste sono opinioni personali e non minano stima e fiducia nei riguardi di chi sta lavorando su questo caso. Gli altri indagati? Mai visti… ».   Matà non lo dice apertamente, ma si sarebbe aspettato una diversa decisione del Gip Alessandro Ricciardolo a fronte della richiesta di riesumazione della salma – negata – avanzata dallo stesso avvocato Lipera. Ciò alla luce di un’unghiata a più dita, poco sopra la natica della defunta, notata dai periti ingaggiati dal Matà durante un attento esame delle foto dell’autopsia: «Ci è stato detto che la nostra istanza è stata presentata fuori dai tempi dovuti – spiega il legale – Ma la giustizia non è una partita a poker, in cui il rilancio deve essere immediato. A questo punto mi chiedo: per quale motivo si fanno le fotografie in sede di autopsia? Ovviamente, a fronte di questa decisione, abbiamo presentato ricorso in Cassazione».   Non è l’unico, riguardo a questo caso. «La polizia scientifica di Palermo ha consegnato una relazione tecnica definitiva sul caso alla Procura di Catania, ma nessuno ha pensato di mettere il consulente di parte a conoscenza dei risultati e, quindi, nelle condizioni di effettuare una propria disanima dei risultati ottenuti».   Lipera ha avanzato richiesta di acquisire tali atti, ricevendo un diniego dapprima dal sostituto procuratore Giuseppe Sturiale, titolare del caso, il quale ha sottolineato come «tutta l’attività svolta dalla polizia scientifica è, e resta, un’attività di indagine, coperta da segreto istruttorio», quindi dallo stesso Gip, che la concordato pienamente con le osservazioni della Procura. «Al di là del ricorso – conclude Lipera – una cosa non mi torna: io non credo all’idea che in un ambiente pubblico come il Cimitero si possa commettere un omicidio senza che nessuno veda alcunché. C’è gente che “vive” il Cimitero, che sta lì ore e ore ogni giorno, pulendo le tombe e trascorrendovi addirittura le ricorrenze. Può essere che sia stato consumato un omicidio con tanta ferocia e che nessuno abbia visto o sentito nulla? Mi viene difficile pensarlo. In ogni caso sono anch’io in attesa della verità. Un fatto così grave, in un luogo sacro come il Cimitero, non può restare impunito».

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