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Pentito rivela: “Volevamo uccidere Falcone con un bazooka”

Pentito rivela: “Volevamo uccidere Falcone con un bazooka”

La deposizione di Francesco Paolo Anzelmo che ha parlato della strategia di Cosa nostra per “bloccare il fenomeno del pentitismo”: “Io ero latitante a casa mia e nessuno mi cercava”

Di Redazione |

La strategia di Cosa nostra negli anni ‘80 era quella di “bloccare il fenomeno del pentitismo anche uccidendo i giudici”. Lo ha detto Francesco Paolo Anzelmo, collaboratore di giustizia dal 1996 nel corso della sua deposizione alla quarta udienza per la strage del rapido 904 del 23 dicembre 1984. In quegli anni “io stesso ho partecipato a vari tentativi per uccidere il giudice Giovanni Falcone, ma non fu mai possibile. Una volta pensammo di usare anche un bazooka”. Secondo Anzelmo Falcone sapeva di essere nel mirino e “prendeva sempre nuovi accorgimenti”, come nel 1985 quando Cosa nostra pensò di ucciderlo con un fucile di precisione, “da distanza”. Ma prima di questo “avevamo ucciso Cassarà, e per questo Falcone non percorreva più a piedi il breve tratto tra l’androne di casa e il marciapiede ma – ha proseguito Anzelmo – l’auto quando andava a prenderlo saliva direttamente sul marciapiede accostandosi all’androne stesso. E per questo non fu più possibile”.

LATITANTE A CASA. Dall’84 all’89 ero latitante, ero a casa mia, ma nessuno mi ha mai cercato. Si camminava tranquilli per strada, non come dopo le stragi di Falcone e Borsellino”. Sono queste le parole di Francesco Paolo Anzelmo che ha anche raccontato che nel corso di un colloquio con Pippo Calò, avvenuto nel carcere di Spoleto, dove entrambi erano detenuti con il regime del 41bis, il boss di Cosa nostra, “che non si lamentava mai degli altri ergastoli, si lamentò invece di quello per la strage del treno, perché diceva di essere innocente”. “Io a lui non chiesi nulla – ha concluso Anzelmo –, se è vero o non è vero a me non interessava”.

IL PROCESSO. Ha preso il via nell’aula bunker di Firenze la quarta udienza del processo che si sta celebrando davanti la Corte d’Assise per la strage del treno rapido 904 Napoli–ilano del 23 dicembre 1984, che ha come unico imputato Totò Riina. Il capo di Cosa Nostra è accusato di essere il mandante, il determinatore e l’istigatore dell’attentato che costò la vita a 16 passeggeri e dove rimasero ferite 267 persone. Anzelmo ha ammesso di aver partecipato alla strage di Capaci, e a numerosi massacri, compresi quelli del giudice Rocco Chinnici, del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e del vice questore Ninni Cassarà. Per la strage del rapido 904 sono stati già condannati in concorso, in via definitiva, i boss Giuseppe Calò, Guido Cercola, Franco Di Agostino e l’artificiere Friedrich Schaudinn. Secondo la Direzione distrettuale antimafia di Firenze, che ha condotto le indagini, Riina è da considerare il mandante della strage di trent’anni fa “nella qualità di capo indiscusso” di Cosa Nostra. La strage terroristica del 23 dicembre 1984, con una bomba fatta scoppiare alle ore 19.08 all’interno della grande galleria dell’Appenino tosco–emiliano a San Benedetto Val di Sambro, fu commessa, secondo l’atto di accusa della Procura di Firenze, “al fine di agevolare od occultare” l’attività di Cosa Nostra per mantenere ed assicurare “l’impunità degli affiliati e garantendo la sopravvivenza della stessa organizzazione”. Secondo l’inchiesta, la strage del rapido 904 fu ordinata da Riina come risposta al maxi processo istruito dall’allora giudice Giovanni Falcone che pochi mesi prima aveva disposto 366 mandati di cattura contro boss e affiliati di Cosa nostra. Oltre alle testimonianze di pentiti di camorra e dell’ex capo del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca, tra le prove a carico di Riina ci sono i materiali esplosivi e i congegni elettronici utilizzati per la strage terroristica, che sarebbero stati prelevati dallo stesso deposito utilizzato poi per le successive stragi mafiose dei primi anni Novanta, compresa la strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992 in cui fu ucciso il giudice Paolo Borsellino. Secondo le indagini, prima condotte dalla Dda di Napoli e poi trasferite a Firenze per competenza territoriale, l’esplosivo (tra cui tritolo e dinamite) sarebbe stato prelevato da un deposito in contrada Giambascio a San Giuseppe Jato, controllato da Giovanni Brusca. A incastrare Riina, oltre alle dichiarazioni rese da Giovanni Brusca, ci sono le testimonianze concordanti di numerosi pentiti, tra i quali Luigi Giuliano, Guglielmo Giuliano, Salvatore Stolder, Francesco Franzese, Gioacchino La Barbera, Leonardo Messina, Antonino Giuffrè, Giovanbattista Ferrante e Salvatore Giuliano, oltre alle indagini e agli accertamenti condotti dal Ros dei carabinieri di Napoli.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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