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«”Maschio, maschio, maschio”. Ma la zia aveva sbagliato… ero nata io, una femmina»

Di Silvana Grasso |

È uscito il 18 ottobre per i tipi di Marsilio “La Domenica vestivi di rosso”, il nuovo romanzo di Silvana Grasso. Il 23 ottobre, dalle 18, la presentazione alla Feltrinelli di Catania. Insieme con l’autrice il prof. Nicolò Mineo e il prof. Salvo Andò. Qui di seguito anticipiamo il primo capitolo.

«Bellissima, una bambola, una madonnina, una rosa di maggio» diceva quasi istericamente Angelina, la più piccola delle quattro sorelle di mio padre, quasi potesse, enfatizzando la mia bellezza, rimediare all’errore di Madre Natura. Ero nata io, una femmina. E specialmente dopo che, solo qualche minuto prima, proprio lei l’aveva gridato di petto “maschio maschio maschio” per tre volte di fila non una, mentre tutto il sangue che aveva in corpo tracimava, come la piena d’un torrente, dai capillari degli zigomi al collo. Com’era potuto succedere un così sciagurato equivoco che, solo nel giro di qualche secondo, li aveva precipitati tutti quanti dal paradiso all’inferno? E tutti erano ancora lì, increduli che fossi femmina, incazzatissimi che fossi femmina, aspettando che un’altra smentita, opera d’un miracolo o d’una stregoneria, li riportasse dritto in Paradiso. Non che lo conoscessero per esperienza il Paradiso, ma per sentito dire era un posto magnifico, e proprio per questo lontano assai dalla Terra. Chi aveva la fortuna d’andarci, ci prendeva gusto, e non tornava indietro mai più nella fottutissima Terra.

 In faccia Angelina, che l’aveva sparata proprio   grossa, era ormai un tizzone di fiamme, ma   cercava come poteva, penosamente e invano, di   rimediare al suo madornale errore, esaltando con   allettanti similitudini la mia presunta bellezza, a   cui nessuno dava il minimo peso. Altra era la   bellezza sperata, che io non avevo, un pendaglino   di carne rossastra tra le coscette, moribondo   almeno alla nascita, ancora avvolto nella sugna   d’umori e placenta, che mi avrebbe comunque   battezzato bellissimo, solo in quanto maschio. La   vicenda era andata pressappoco che lei,   anticipando l’espulsione reale del mio corpicino   dal ventre di mia madre, quando ancora di me si   vedeva solo un ciuffo di capelli, lunghi e scuri,   spalmati di strutto uterino, non ce l’aveva fatta   ad aspettare che un’altra doglia mi sputasse di   botto fuori tutta e, assieme a me, sputasse la   feroce verità: ero femmina. Solo obbedendo a un   comune desiderio di famiglia, che più era   un’ossessione condivisa con madre e sorelle,   aveva dunque gridato tre volte “maschio”, senza   ancora avermi affatto vista, senza conferma   alcuna da parte della levatrice, come se in estasi   lei sola avesse visto la Madonna con tanto di   corona in testa e manto celeste. Fu estasi   brevissima, estasi d’un istante, solo un attimo   dopo disintegrata dalla levatrice che, con la   grazia d’un macellaio, m’afferrò per i piedini e mi sventolò drasticamente a testa in giù, come un coniglietto sparato. Incazzata per essere stata defraudata del suo ruolo di levatrice, che le dava il diritto di dirlo lei e solo lei, prima in assoluto, se era nato un maschio o una femmina, si vendicava su di me, ferocemente agitandomi da destra a sinistra, da sinistra a destra. Mi mostrava, dunque, come un trofeo di caccia, ancora sanguinante per lo sparo. Lo vedessero tutti che ero una femmina, che non ce l’avevo quel ciondoletto di carne ammalorata dalle fatiche del parto, che alla nascita distingueva, una volta per sempre, i maschi dalle femmine. Non usò parole per dare sfogo alla sua vendetta. Si servì del mio corpicino, innocente insanguato infreddolito, insugnato, come fosse la prova testimoniale d’un delitto. E d’un doppio delitto si trattava. Ero femmina, e in più spacciata per maschio, sia pure per pochi istanti. Attorno al letto di mia madre c’erano, tra suocera cognate e vicine di casa, nove femmine. Mio padre se ne stava schiacciato al muro del corridoio, in posizione di fuga, minacciato dall’imminente tragedia, che già s’avvertiva nell’aria. Nessuna di loro però disse niente, non un aggettivo, non un commento, non una preposizione, non un avverbio, non un’esclamazione, del tipo oh ah eh ih. Il silenzio totale fu inappellabile sentenza. Tutte guardarono con odio, quell’odio che nasce dall’essere stati fottuti frodati ingannati, Angelina, ritenendola addirittura responsabile del mio mancato sesso di maschio, quasi che proprio lei lo avesse, per stregoneria, per affatturazione, mutato all’ultimo minuto o addirittura mutilato. Prima di scomparire a testa bassa, come un cane bastonato, quasi ad alleviare le conseguenze del suo fatale errore, sia pur dettato dalla buona fede, si sentì appena un filino della sua voce dire ch’ero bellissima, una bambola una madonnina una rosa di maggio.

Era un dettaglio ch’io fossi bellissima o bruttissima, non ero maschio e questo concludeva la faccenda. Analogie, similitudini, con bambole rose o più pregiati fiori, non avrebbero mutato d’un pelo la delusione, che grandissima era e nessuno si sforzava di nasconderla. Mio padre, che certo non era uomo di coraggio, cresciuto solo tra femmine tribali, scappò per tempo a rinchiudersi dentro uno sgabuzzino senza presa d’aria, a rischio di morirci soffocato, lui che da sempre soffriva d’asma grave. Si gettò per morto su una rete arrugginita e senza materasso, lamentando che una terribile emicrania lo stesse per uccidere da un attimo all’altro. Non era vero, ma sperava che la menzogna giungesse ma terna a sollevarlo da ogni responsabilità per il maschio mancato e dall’ipotesi, non infondata, d’un tribunale d’inquisizione, organizzato sul momento da tutte le femmine di casa, perché subito si individuasse e processasse il colpevole. Non solo ero femmina, ma ero la seconda figlia femmina, e mio padre non aveva fratelli, cui delegare la continuità della specie maschio in famiglia. Quella volta andò come lui sperava, nessuno lo stanò dallo sgabuzzino. Avevano un cuore dunque, pensò, o semplicemente non valeva la pena di perdere un solo secondo con un coglione come lui, considerato poi quello scirocco terribile di fine giugno. Meglio mangiare, meglio dormire, meglio dimenticare, dopo le dieci ore perse dietro al parto, i litri di sudore versati, gli spasmi da digiuno. Sparirono tutti, prima che io fossi lavata e liberata dalla sugna della placenta, che aveva mascherato un altro problema, il vero problema, di cui nessuno fino a quel momento s’era accorto.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA