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Quella volta che Pasolini girò la Sicilia con la Fiat 1100

Di Giuseppe La Barbera |

CATANIA – «Eravamo nell’ultimo angolo della Sicilia, ancora un po’ di campagna, carrubi, mandorle, villette estive di baroni, poi il mare, il mare africano». Tra maggio e luglio del 1959, lo scrittore, regista e poeta Pier Paolo Pasolini (1922-1975) fu più volte in Sicilia e riportò le sue impressioni in alcuni suoi reportage. «Piombati da Roma a Catania, da Catania a Scicli, attraverso cento e più chilometri di Sicilia verde, deserta, araba, greca, gesuitica, coperta di fiori e di pietre, con mucchi di città incolori, raggrumate, senza periferia, come le città dei quadri, sui fronti delle colline, nelle vallate».

Con Renato Guttuso, Carlo Levi, Antonello Trombadori, Paolo Alatri e Maria Antonietta Macciocchi fu a Scicli per constatare la delicata situazione degli ”aggrottati” di Chiafura nel comune ibleo; lo attendevano nella piazzetta “giallognola”, affollata “di uomini neri, solo uomini”. Osservò Scicli in tutte le sue sfumature, tra i vecchi vicoli, sotto «i vecchi palazzotti di don Rodrighi sanguinari e assenti»: «una vallata, dentro la quale, compatta, si sparge Scicli, senza periferia e case moderne: un po’ fuori un enorme cimitero, un enorme ospedale, tutto color giallo-rosa, cadaverico; al centro la piazzetta e la strada barocca, dei baroni, dei gesuiti – scrisse Pasolini – da questa vallata si diramano, tutte dalla stessa parte, altre tre piccole valli, dalle pareti quasi a picco, bianche di pietre: da lontano non si nota nulla: ma salendo per sentieri che sono letticciuoli di torrenti; sopra le ultime casupole di pietra della cittadina, si sale una specie di montagna del purgatorio, con i gironi uno sull’altro, forati dai buchi delle porte delle caverne saracene, dove la gente ha messo un letto, delle immagini sacre o dei cartelloni di film alle pareti di sassi, e lì vive, ammassata, qualche volta col mulo».

In cima alla valle centrale vide «un castellaccio diroccato, e una vecchia chiesa, giallo-rosa, barocca, gesuitica, distrutta da un terremoto e piena di erba. Da lassù in alto potei vedere tutta Scicli. Come un vecchio giocattolo, sul calcare, la città di uno scolorito ex voto». Visto così, da lontano e dall’alto, Scicli era quello che si dice la Sicilia: «una comunità di gente ricca di vita, compressa, atterrita, deformata da secoli di dominazione, che troppa intesa a succhiarne il sangue, non ne ha potuto succhiare la vita: e l’ha lasciata viva, e quanto viva, a soffrire, a dibattersi, a uccidere, anziché a operare, a pensare e a amare. Quanto al resto, al ritmo intimo e quotidiano della vita, ben poca differenza mi pare ci sia con un paese ciociaro o magari piemontese».

In Sicilia ritornò nel luglio dello stesso anno con la sua millecento, visitò le città orientali. “Pur con degli splendidi scorci e sfilate di strade di un barocco che pare di carne, delle cattedrali d’una ricchezza inaudita e quasi indigesta, queste città non sono belle – sottolineò – sembrano sempre appena ricostruite da un terremoto, da un maremoto, tutto è provvisorio, cadente, miserabile, incompleto. E allora non so dire in cosa consista l’incanto: dovrei viverci degli anni”. Sentì il profumo di zagare e limoni, liquerizia e papiri, e arrivò a Taormina che è “indubbiamente una cosa d’una bellezza suprema (ma dove, come a Positano e a Maratea, io non mi sono trovato bene): posso però affermare che il viaggio da Messina a Siracusa può fare impazzire”.

Ed eccolo a girare per Siracusa, alla fonte Aretusa che ¿è sul porto, un porto ceruleo e dolce come una laguna» e vede i “ragazzi di vita” siracusani. Si accorge che in città recita l’amica attrice Adriana Asti, che alloggiava a Villa Politi «una dolce costruzione liberty, poco fuori dalla città, sulle latomie», dove trova anche «la bellissima Edmonda Aldini».

Adriana Asti e Pier Paolo Pasolini a Siracusa (1959)

Adriana Asti era «con la maglietta beige e i calzoni bianchi, coi due occhi enormi, più grandi di lei, per cui nel viso non trovano posto in nasino e il mento, pur piccolo». Salgono sull’automobile e vanno al mare di Siracusa e in auto l’attrice sussurra: «ma sai che qui è splendido! Io non torno più via da qui, mi faccio rapire da un barone siciliano». Girano e rigirano per uscire dalla città e capitano in una spiaggetta «della povera, buona borghesia siracusana». Tutti guardano Adriana così «nudina nel suo due pezzi»; fecero il bagno in quell’acqua che era «uno zucchero, un miele, un liquido di Dei».

Poi lasciano l’Arenella, con le sue famiglie d’avvocati, e corrono ancora in giro: trovano l’Anapo che «sciacqua via verde, caldo, con la corrente zeppa di papiri». Un ragazzo, che passava di lì, “e, no, non esagero – commentò Pasolini – ha una faccia antica, veramente, non so bene se fenicia, alessandrina, o da scriba romano-meridionale, e quelle schiene con le spalle sporgenti come si vedono dipinte solo nei vasi. Questo ragazzo, senza dir niente corre giù per la riva verdissima dell’Anapo, e strappa tre lunghe canne di papiro, con la loro frangia verde e sottile sulla cima. Le dà a Adriana, che tutta felice le afferra, se le stringe in mano. Davvero le donano». Poi Pasolini decide di andare più a sud. «Passo Noto, passo Avola – ricorderà lo scrittore – giungo a Pachino, ch’è una cittadina piena di vita, di gente stupenda: ma non mi fermo, vado ancora più a Sud, arrivo a Capo Passero: una lingua di terra gialla con un faro bianco: e una selva di fichi d’India intorno, oltre le file di muriccioli sgretolati. E non mi fermo ancora: vado più giù, a Porto Palo, ch’è un paesetto miserando, acquattato dietro quella lingua di terra, con delle file di casucce rosse, e l’acqua degli scoli che passa in canaletti perpendicolari alla strade: la gente è tutta fuori, ed è la più bella gente d’Italia, razza purissima, elegante, forte e dolce».

Ma non si ferma ancora, arriva al porticciolo di Porto Palo, «dove la strada finisce contro un muretto lungo il mare: a sinistra sotto un costone giallo una decina di barche malandate, a destra una spiaggetta incoronata da dei fichi d’India che sono dei monumenti. E non mi fermo ancora. Lì davanti c’è un isolotto, tutto sabbia e fichi d’India, con una torre barocca. Chiedo a uno dei giovani che, come sempre, sono seduti sul muretto: “Mi puoi portare su quell’isola? Come si chiama?”. “Isola di Porto Palo!”, mi fa sconcertato, perché forse per lui l’isola non ha nome. Scende verso la barca, e remando lentamente attraversa il piccolo braccio di mare, reso turchino e rosa dalla luce morente. Sbarchiamo sull’isolotto, sotto la torre, e, già quasi nell’ombra tenerissima, odorosissima della notte, faccio il bagno nella più povera e lontana spiaggia d’Italia».

Lascia la Sicilia per la prossima tappa, ma confesserà: «avevo sempre pensato e detto che la città dove preferisco vivere è Roma, seguita da Ferrara e Livorno. Ma non avevo visto ancora, e conosciuto bene, Reggio, Catania, Siracusa. Non c’è dubbio, non c’è il minimo dubbio che vorrei vivere qui: vivere e morirci, non di pace, come con Lawrence a Ravello, ma di gioia».

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