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«Voglio emigrare non per lavoro, ma per cercare civiltà»

Di Redazione |

È davvero pesante, ogni santo giorno, alzare la saracinesca della propria attività circondati da sporcizia, degrado e da odori nauseabondi che – soprattutto con le temperature dell’agosto catanese – non mancano di fare da cornice a un quadro urbano di fronte al quale non si può che provare solo vergogna. E la vergogna sentiamo di recarla scritta in volto ogni volta che un turista, italiano o straniero che sia, entra per fare il suo acquisto, costretto a schivare cartacce, rifiuti abbandonati e marciapiedi che molto catanesamente possiamo descrivere come “ncaddrati” dal percolato rilasciato da rifiuti esposti (quasi sempre senza alcuna differenziazione) per giorni e giorni a marcire sotto il sole.

Ma come abbiamo fatto a ridurci a questo punto? Non bastavano più le strade martoriate da asfalto quasi sempre in pezzi, non bastava più il caos stradale generato da comportamenti strafottenti che offendono non solo il codice della strada ma anche il più comune buonsenso, non bastava più la drammatica condizione finanziaria che da almeno quindici anni costringe il Comune a campare alla giornata, non bastava più la confusione istituzionale conseguita alla soppressione (o presunta tale!) delle Province che, alla fine della fiera, ha portato come unico risultato evidente solo quello del più totale abbandono delle strade provinciali. No, tutto questo non bastava. Tra le inchieste giudiziarie, l’incapacità amministrativa di pianificare i servizi, l’inciviltà dilagante di chi rifiuta la raccolta differenziata, l’assoluta inesistenza di controlli e multe, abbiamo ridotto Catania a un’unica grande latrina vomitevole e maleodorante.

Mi chiedo cosa ci sia da festeggiare nel fatto che questa città sia sempre più meta di turismo e mi chiedo cosa deve pensare chi, arrivato a Catania, si trova davanti una città ridotta così. Non esistono isole felici: da Vaccarizzo al corso Italia, da Vulcania al centro storico, da Nesima al lungomare, dalla Plaia alla stazione centrale… Esiste oggi una Catania che sia anche minimamente decorosa e presentabile?

Tutto questo penso ogni mattina guardandomi in giro mentre alzo quella saracinesca, in via Caronda, a due passi dal nuovo “fontanone” del Tondo Gioeni e da quel Vulcania che trent’anni fa fu il primo centro commerciale di una Catania dinamica e – pur con tutti i suoi difetti – piena di voglia di fare. Quello che temo è l’assuefazione, temo soprattutto che l’asticella del degrado e del sudiciume a cui i siciliani si stanno abituando si alzi sempre più, come lentamente avvelenati dalla nostra stessa inciviltà, dalla nostra stessa rassegnazione, dalla nostra stessa strafottenza.

Una volta era normale “bruciare” il rosso dei semafori pedonali, perché ci si sentiva fessi ad attendere che scattasse il verde quando non vi era alcun pedone all’orizzonte. Oggi, ad essere impunemente “bruciati” sono pure i rossi dei trafficatissimi semafori del corso Italia. Una volta era normale buttare per terra lo scontrino del panificio o il tovagliolo della pizzetta, oggi abbiamo strade comunali e provinciali ridotte a vergognose discariche che – fateci caso – si avvistano già dai finestrini degli aerei quando si sorvolano la Tangenziale e l’Asse dei Servizi.

Mentre scatto le foto che allego, non posso fare a meno di ricordarmi come via Caronda e via Fimia non vengano spazzate da mesi: non giorni, non settimane, ma mesi! Il sindaco ci ricorda che l’origine del problema è sempre lo stesso: personale ormai anziano e mezzi vecchi e privi di manutenzione. Appalti ponte, appalto settennale, controlli più stringenti, opifici di pace… Da quanto tempo leggiamo e rileggiamo queste cose? E per quanto tempo ancora troveremo la forza di scrivere e di segnalare, quasi sempre senza ottenere risposta e senza che qualcosa cambi davvero? Arriverà il momento in cui avrà la meglio la tentazione di emigrare verso latitudini in cui non si sia costretti a calpestare rifiuti e sudiciume per iniziare la propria giornata di lavoro. Emigrare non in cerca di lavoro, ma in cerca di civiltà.

Dario Barone

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