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Il “cervello” siciliano di ritorno che combatte il Parkinson

Di Maria Ausilia Boemi |

La nostalgia e un «allineamento di opportunità» – non capitato per caso, ma fortemente voluto – hanno riportato un cervello siciliano nella terra natia, strappandolo alla prestigiosa università di Cambridge: il 39enne biotecnologo Nunzio Iraci, di Barcellona Pozzo di Gotto, oggi lavora, anche grazie al grant di Fondazione Con il Sud, nella nuova Torre biologica a Catania, da dove cerca di trovare cure al Parkinson.

Dopo il diploma al liceo scientifico di Barcellona Pozzo di Gotto, l’“emigrato siciliano di ritorno” nel 1998 si è iscritto in Biotecnologia all’università di Bologna. «Esperienza bellissima – racconta – durata in tutto 13 anni tra corso di laurea, dottorato e post doc nel dipartimento di Biologia evoluzionistica sperimentale dell’ateneo bolognese». Nel 2011 la decisione di trasferirsi a Cambridge per un secondo post doc: «Con la mia futura moglie, all’epoca fidanzata e anche lei biotecnologa, volevamo trascorrere un periodo all’estero che, in particolare nel nostro mestiere, è fondamentale. Cambridge era un centro di eccellenza e mia moglie ha trovato per prima una opportunità lì: noi volevamo infatti rimanere in Europa per non allontanarci troppo dalle famiglie. A quel punto ho ristretto molto la mia area di ricerca: e sono riuscito a trovare un laboratorio di ricerca a Cambridge dove sono stato post doc o research fellow dal 2011 fino a quando ho firmato il contratto qui a Catania nel giugno 2016».

Una scelta che lo stesso Nunzio Iraci definisce «una follia» (di cui però specifica di non essere assolutamente pentito), nella quale è stato assecondato dalla moglie. «C’è – sottolinea – chi spara a zero sull’Italia perché vede la differenza con le opportunità che offre l’estero, magari vorrebbe rientrare ma fa fatica, perché effettivamente è difficile, e allora finisce col restare lì; oppure in qualche modo la nostalgia prevale e uno insiste e, se è fortunato, se i pianeti si allineano in maniera opportuna, a volte succede. L’allineamento, nel nostro caso, è stato più per me: mia moglie ha infatti fatto un grosso salto nel buio perché ha rinunciato a un posto a tempo indeterminato in una company e oggi lavora nel mio stesso dipartimento con una borsa di studio, occupandosi dei meccanismi di genesi dei tumori. Ma non potrà mai essere stabilizzata lì, perché per legge un parente fino al terzo grado non può essere assunto a tempo indeterminato nello stesso dipartimento dove lavora un altro familiare. L’Italia però ci mancava troppo, dovevamo tornare a casa: io in particolare avevo questo pallino, visto che metà della mia vita l’avevo spesa fuori casa».

 E qui entra in ballo quello che Nunzio Iraci definisce   «l’allineamento», reso possibile dalla collaborazione   decennale tra il suo ex capo di Cambridge, il dott. Stefano   Pluchino, e la professoressa Bianca Marchetti, farmacologa   del dipartimento in cui il biotecnologo barcellonese lavora   oggi. A ciò si è aggiunto l’obbligo per le università italiane di   assumere quote di personale esterno per non incorrere in   sanzioni: e all’epoca c’erano dei bandi Rtdb (ricercatore a   tempo determinato di tipo B), i più ambiti perché, a   differenza di quelli di tipo A di massimo 5 anni, il B ha il   vantaggio di avere un budget già accantonato per fare   diventare il ricercatore professore associato, dopo il   superamento dell’abilitazione scientifica nazionale basata sui   titoli. Che è proprio il prossimo step, a giugno 2019, per   Nunzio Iraci. «Il rettore aveva quindi questo bagaglio di Rtdb   da assumere, ero un siciliano che voleva rientrare, ero stato a   Bologna e Cambridge, poi è arrivato il grant di “Fondazione   Con il Sud” (avevo chiesto 400mila euro iniziali, ridotti poi a   250.000 per finanziare solo la mia ricerca visto che ero già   retribuito dall’università). Ecco così l’allineamento, su cui il direttore del dipartimento, il farmacologo Filippo Drago, ha messo il suo imprimatur».

Con i 250mila euro di “Fondazione Con il Sud”, Nunzio Iraci paga la sua ricerca e lo stipendio di una giovane ricercatrice che fa il post doc, Loredana Leggio, alla quale recentemente si è aggiunta una tesista, Greta Paternò. In particolare, il team al dipartimento Biometech, composto dal dott. Iraci (che insegna anche in un corso alla magistrale di Biotecnologie mediche), dal suo ex capo a Cambridge, Stefano Pluchino, dalla farmacologa Bianca Marchetti, dalla dottoressa Francesca L’Episcopo dell’Oasi di Troina «vuole caratterizzare, nel contesto del Parkinson, il modo in cui le cellule della glia parlano con le cellule neuronali. Le cellule del sistema nervoso centrale – spiega Iraci – non sono soltanto neuroni, ci sono altre cellule che fanno loro da sostegno strutturale, metabolico e funzionale: astrociti, microglia, oligodendrociti, tutti tipi cellulari chiamati glia. Queste cellule possono avere un ruolo positivo o negativo nell’insorgenza di malattie neurodegenerative come il Parkinson e noi stiamo cercando di capire in che termini per eventualmente limitare il loro contributo negativo e potenziare quello positivo. In particolare, si è visto che le cellule si scambiano informazioni tramite esosomi. Gli esosomi, o vescicole extracellulari, sono frammenti cellulari secreti dalle cellule che contengono materiale genetico: diciamo che è come se le cellule si scambiassero dei pacchi contenenti informazioni che possono essere recepite dalla cellula target e usate dal questa per andare in una direzione o in un’altra. Quello che stiamo cercando di fare è caratterizzare gli esosomi e capire come possiamo rinforzarne il ruolo neuroprotettivo e neurorigeneratorio nel Parkinson».

 Certo, fare ricerca in Italia è più difficile che all’estero   «per tanti motivi: anzitutto, all’estero hanno una cultura che   è più predisposta a investire nella ricerca. Solo per fare   qualche esempio, in Inghilterra gli stipendi a parità di grado   sono più elevati, non si paga l’Iva sul materiale che si   acquista per la ricerca, i grant e i finanziamenti sono di gran   lunga superiori. È un sistema che è organizzato attorno alla   ricerca: gli amministrativi, che anche qui fanno bene il loro   lavoro, lì però si integrano molto meglio. E questo a volte   rende le cose difficili in Italia, sebbene la burocrazia in   Inghilterra non sia minore, tutt’altro: però gli inglesi sono   molto pragmatici, se hanno un problema lo devono risolvere.   Qui se c’è un problema non lo si risolve, perché magari c’è la   paura che poi ci si possa andare di mezzo».

 Di fronte a difficoltà tali, ci si potrebbe anche pentire di   essere tornati. Ma non è il caso del dott. Iraci: «Nessun ripensamento. Sono molto contento di essere tornato e lo rifarei altre mille volte. Erano peraltro difficoltà che sapevo che avrei incontrato. Di contro, l’integrazione con i colleghi è stata molto buona, mi hanno messo a disposizione molti strumenti e facilities – con la filosofia di centralizzare per ottimizzare le risorse – come il Brit (centro servizi che mette a disposizione strumenti e personale nell’ambito delle nanotecnologie e delle biotecnologie) della professoressa Stefani e il Capir (centro servizi animale) della professoressa Parenti. Quindi no, non me ne sono pentito, anche se spesso è faticoso».

Ma il richiamo della Sicilia era troppo forte: «Mi mancava tutto: il mare, i colori, la vita fuori, gli odori, il sapore del cibo, la luce. Quando si dice che in Inghilterra piove sempre e non si vede il sole, è vero: il primo anno lì, non ho visto il colore del cielo per otto mesi consecutivi. E questo ha un impatto. Ovviamente, mi mancavano anche la famiglia, gli amici, lo stare in un luogo con una cultura che mi rappresenta meglio, in cui mi sento integrato». A non mancargli per nulla, invece, «parte degli aspetti negativi della cultura: il vedere la distesa di sacchetti di spazzatura entrando a Catania, la frenesia, la mancanza di rispetto delle persone e delle regole. Ma soprattutto la sporcizia: gli amici inglesi restano a bocca aperta per la bellezza della Sicilia e sconvolti perché non riusciamo a rispettare questa bellezza».

 Il dott. Iraci oggi ripaga all’Italia l’investimento   economico che il Paese ha sostenuto per preparare i suoi   cervelli: e l’istruzione ricevuta in Italia, per il dott. Iraci, è   stata non adeguata, «ma addirittura superiore a quella dei   pari grado inglesi. Abbiamo una preparazione di base di gran   lunga migliore: loro sono più pragmatici, finiscono prima   l’università, si immettono prima nel mondo del lavoro, ma a   volte si resta veramente stupiti di fronte alle loro lacune. È   dunque secondo me sbagliato inseguire, con le riforme, quel   modello al 100%, perché la nostra preparazione di base ci   premia, come ci viene riconosciuto ovunque».

 Un percorso a ritroso raro, quello di un “emigrato di   ritorno”: ma come si possono fare tornare i cervelli in Italia?   «Risolvendo qualcuna delle problematiche di cui parlavo   prima. Un primo segnale potrebbe essere togliere l’Iva dai   prodotti per la ricerca. E poi bisogna mettere sul piatto i   finanziamenti, investire molto sui giovani, perché le energie ci   sono, non sono l’unico che vuole rientrare, però le condizioni   scoraggiano molto. Ci vogliono occasioni, soldi, finanziamenti   per i giovani che vogliono fare».

 Giovani ai quali il dott. Iraci consiglia «di fare esperienza:   quello che mi ha permesso di superare la classica fila   universitaria, che non va sempre demonizzata, è avere fatto   esperienza all’estero. Non vivere quindi il fatto di andare fuori   come una sconfitta, perché invece è una necessità primaria. E   poi non perdere la fiducia di rientrare, perché è vero che io ho   avuto un allineamento, però è anche vero che l’ho cercato per   diversi anni. Quindi, tenere duro e sfruttare le occasioni,   come quelle preziosissime della Fondazione Con il Sud».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA