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La crisi alla regione

Affonda la legge salva-ineleggibili: FdI minaccia di ritirare gli assessori

Con il voto segreto i franchi tiratori del centrodestra (9 o forse di più) bocciano all’Ars il Ddl di sanatoria dei seggi. Schifani sotto assedio, l’ira dei big meloniani

Di Mario Barresi |

Scena madre numero uno: Renato Schifani, ormai rassegnato alla prima vera crisi del suo governo, al momento del voto decisivo prova teneramente a sbirciare le pulsantiere dei due assessori che ha accanto, Luca Sammartino e Marco Falcone, per capire se schiacceranno il rosso o il verde; il primo è immobile, il secondo più nervoso ed entrambi danno l’impressione di votare per farsi vedere dal governatore. Scena madre numero due: Gaetano Galvagno, al rientro dalla sospensione chiesta dopo l’affossamento dell’emendamento correttivo del meloniano Giorgio Assenza, batte nervosamente le dita sullo scranno più alto dell’Ars, beve un bicchiere d’acqua come se stesse deglutendo veleno; e poi sospira, quando arriva la conferma di un altro voto segreto: ha capito che il blitz di Fratelli d’Italia è fallito. Scena madre numero tre: nella chat dei big regionali di FdI, dopo la Caporetto a Sala d’Ercole, irrompe un messaggio di Manlio Messina, mentre è in corso un’infuocata riunione del gruppo dell’Ars a Torre Pisana: il potentissimo vicecapogruppo alla Camera parla esplicitamente di «un atto di guerra contro di noi» e intima agli assessori del partito di disertare la seduta di giunta sulla nomina dei manager della sanità, «nonostante qualcuno di noi si sia fatto gli accordini per i fatti suoi» (il riferimento è alla “retrocessione” del musumeciano Ferdinando Croce all’Asp di Trapani, con Walter Messina, gradito ad Alessandro Aricò e non solo, alla guida del Civico di Palermo); ma ormai è troppo tardi: la delibera viene votata dal governo Schifani senza i meloniani e parte il comunicato stampa già pronto dal primo pomeriggio.

Una maggioranza a pezzi

La maggioranza regionale è a pezzi. E la bocciatura della norma che sarebbe servita a “sanare” l’eventuale decadenza di almeno due deputati di Fdi (Giuseppe e Nicola Catania), visto che altri due potenzialmente interessati, il meloniano Dario Daidone e Davide Vasta di Sud chiama Nord, sono in attesa di sentenza di secondo grado, apre la fase più tumultuosa dell’era Schifani. Tanto più che il governatore, finora “laico” su un blitz che ormai aleggia da mesi, stavolta s’è impegnato personalmente con i vertici nazionali del partito di Giorgia Meloni. Una «questione di fiducia» posta martedì da Ignazio La Russa, dopo che sulla moral suasion s’erano già mossi Francesco Lollobrigida e Giovanni Donzelli; certo, resta il mistero del perché il gotha dei patrioti fosse così interessato a una “legginina” siciliana, ma questa è un’altra storia. Schifani, nel vertice di maggioranza in mattinata, accetta la «priorità assoluta» posta da FdI, anche perché uno dei due giudizi in bilico (il ricorso di Peppe Bica per il seggio trapanese di Nicola Catania) è previsto in appello per il 7 febbraio e dunque – ragionano i promotori – «votare la legge dopo non avrebbe più senso». E pur di non rompere con il socio di maggioranza relativa del suo governo, il presidente della Regione paga un prezzo politico salatissimo: accetta di rinviare il ddl sulla riforma delle Province, un provvedimento a cui «tiene tantissimo». Anche perché il ritorno del testo in commissione è l’unico espediente tecnico per ridare la corsia privilegiata alla “salva-ineleggibili”: è il responso del consulto, ieri mattina a Palazzo d’Orléans, fra Schifani e Galvagno (che ha già chiamato quasi tutti i deputati di centrodestra, uno per uno), accompagnato dal segretario generale dell’Ars.

Schifani in Aula, si vota

Si va dunque al voto. E il governatore ci mette la faccia, presentandosi in aula. «Non c’era nemmeno per la finanziaria, ma stavolta è venuto per assistere alla sua maggioranza che si sgretola», gongolano le opposizioni. Ringalluzzite dall’evidente spaccatura nella maggioranza: da un lato l’asse FdI-Mpa, dall’altro Lega e Dc, con in mezzo un’imbarazzata Forza Italia. Nella discussione in aula è un fuoco di fila. Il dem Nello Dipasquale minaccia di «andare a denunciare tutti in Procura», mentre Ismaele La Vardera (ScN), in un appassionato intervento, parla di «intimidazione» del presidente alla sua maggioranza, invitandoli «ad andare tutti a casa, perché anziché la salva-Sicilia pensate solo alla salva-ineleggibili». Il suo leader Cateno De Luca, poco prima, annuncia il cambio di strategia che si rivelerà decisivo: il gruppo, anziché uscire dall’aula come annunciato, voterà contro. Contro «una norma aberrante, schifosa e terribile», come esplicita il capogruppo del M5s, Antonio De Luca, mentre il coordinatore regionale Nuccio Di Paola sfida la maggioranza: «Ci metta la faccia». Sagace come sempre, Antonello Cracolici sparge sale sulle ferite della maggioranza: «Mi trovo d’accordo con Totò Cuffaro: nemmeno nella Prima Repubblica si legiferava per interpretare norme rispetto a sentenze dei Tribunali». Ed è il presidente dem dell’Antimafia, vecchio maestro delle tecniche d’aula, a proporre il voto segreto. A supportare la richiesta sono otto deputati del Pd, due di Sud chiama Nord e Giuseppe Catania (FdI).

Il tonfo della maggioranza

E dunque va in scena il tonfo della maggioranza. Prima viene bocciato (36-24) l’emendamento di riscrittura presentato dal promotore meloniano Giorgio Assenza, che prova orgogliosamente a difendere il principio per cui «sono i cittadini a eleggere e non i cavilli: se uno prende un voto in più dell’altro è eletto». Poi il voto sul testo del ddl: finisce 34-30. Nonostante ben cinque deputati d’opposizione siano assenti (Giovanni Burtone e l’inquisito Dario Safina del Pd; Jose Marano e Carlo Gilistro del M5S; più il deluchiano Vasta che, «per correttezza», esce dall’aula, invitando a fare lo stesso i tre colleghi di FdI, i quali restano incollati agli scranni) e quasi tutti quelli della maggioranza presenti (tranne il capogruppo della Dc, Carmelo Pace). Considerando ormai Gianfranco Miccichè nel fronte, le opposizioni dispongono dunque di 25 voti, mentre il centrodestra in teoria ne ha 39. Ciò significa che, vista la quota 34 raggiunta, aritmeticamente i franchi tiratori della maggioranza sarebbero 9. Ma politicamente, assicura chi aggiorna il pallottoliere della rivolta contro «la tracontanza di FdI», la stima è più alta: forse 13, al netto di qualcuno d’opposizione che avrebbe fatto il doppio gioco. Non sapremo mai la verità.

L’ira di Fratelli d’Italia

Alla luce del sole, invece, è l’ira di FdI. Che, accusando «gli sfascisti alleati», parla di «apertura della crisi di governo». In tarda serata una proposta viaggia, da Roma a Palermo, nella chat meloniana: «Il presidente ha fatto deliberare le nomine dei manager senza i nostri: adesso dobbiamo ritirare gli assessori». E così, in un coro di «giusto», «vergogna» e «apriamo la crisi», qualcuno sommessamente chiede: «Vediamo se avremo il coraggio di farlo». Ed è questo, all’alba del giorno più difficile di Schifani dall’elezione, l’interrogativo più pesante per il centrodestra (non solo) siciliano.

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