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IL RACCONTO

Se la politica siciliana si fa tra i calici: al Vinitaly “vecchi trucchi”, gatti, siparietti e candidature

Tra gli stand della fiera succede un po' di tutti: patti, alleanze, anatemi. E, come si dice, “in vino veritas”...

Di Mario Barresi |

Formidabili, quegli anni. Quando Totò Cuffaro faceva l’assessore regionale all’Agricoltura applicava il metodo “vasa-vasa” al calice. Come estensione ideale della bocca. E dunque, arrivato al Vinitaly, il suo scopo principale era riuscire a girare tutti gli stand dei produttori siciliani. Senza trascurarne alcuno. Decine, centinaia di visite. Con baci per tutti. E immancabile assaggio di vino per l’allora giovane e ambizioso assessore centrista, perché ogni vignaiolo aveva l’orgoglioso piacere di fargli apprezzare il proprio nettare. E così Cuffaro, anche bevendo un sorso appena per ogni cantina, arrivava a fine giornata a quattro zampe. Deluso perché a un certo punto si doveva fermare senza aver baciato-abbracciato-bevuto tutto il baciabile-abbracciabile-bevibile nel ricco padiglione della Sicilia.

Il consiglio del “tecnico”

Poi, un giorno, diventato governatore, ricevette un consiglio da un suo assessore “tecnico”, il professore Giovanni La Via, che aveva preso il suo posto alla guida dell’Agricoltura. «Totò, prima di girare gli stand per assaggiare il vino, devi mangiare abbondante pane inzuppato nella panna». E così fece. Le performance, raccontano i suoi accompagnatori dell’epoca, aumentarono in modo significativo. «Riusciva a girare tutti gli stand siciliani in due turni: uno la mattina e uno la sera. Ed erano centinaia…».

L’erede (senza panna)

Adesso quel posto che sembra quasi tagliato per chi ha grandi progetti è occupato da Luca Sammartino, giovane e ambizioso assessore leghista. «Non ha voluto ascoltare il mio consiglio: pane e panna. E puoi bere quanto vuoi», lo riprende il suo maestro. Ma “Mr. Preferenze”, erede in progress, ci prova lo stesso. Girando le cantine siciliane presenti al salone internazionale del vino con il metodo del porta a porta elettorale. Anzi, come ricorda Filippo Granato, infaticabile segretario particolare, «a tagghiu»: uno stand a destra e uno a sinistra, zigzagando per non perderne nemmeno uno.

Il gatto “premeditato”

Eppure non ci sono più i Vinitaly di una volta. Nemmeno per i politici siciliani. Quello del 2022, ad esempio, il primo all’uscita dal tunnel del Covid. Con tanta voglia di ricominciare, di riprendersi le proprie vite. Con l’insostenibile ebbrezza dell’essere di Gianfranco Miccichè: fu alla cena di gala offerta dal suo assessore all’Agricoltura – l’indimenticabile Tony Scilla, capace di far traslocare in un palazzo nobiliare di Verona la marineria di Mazara, dai gamberi rossi agli chef – che l’ormai ex viceré berlusconiano di Sicilia pronunciò il celeberrimo pronostico sull’allora governatore uscente e aspirante rientrante: «Con Musumeci vince pure un gatto!».

Vista la location dell’esternazione, si fantasticò molto sul tasso quanto meno alcolico. Ma era lucidamente sobrio, parola di testimone diretto. Che, intercettato sul balcone prima degli aperitivi, ascoltò da Miccichè la seguente frase: «Adesso a metà cena vengo al tavolo dei giornalisti e vi faccio impazzire!». Premeditazione ci fu.

“Ambelia” e il patto di ferro

E dire che Nello Musumeci c’era pure, l’anno scorso. In un giorno rigorosamente diverso rispetto all venuta dell’alleato-nemico. Pochi assaggi, tante strette di mano. E una visita speciale allo stand di Judeka, la cantina calatina dei fratelli Cesare e Valentina Nicodemo. Erano loro – giovani, belli, bravi – a custodire un segreto nella botte: vinificano per il governatore, oggi ministro. Poche bottiglie, ma buone. Con uve del vigneto del ministro in contrada Annunziata a Militello: 35% Nocera, un raro vitigno autoctono, e 65% Nero d’Avola. Il nome del vino? “Ambelia”, naturalmente. Musumeci non ebbe bisogno di misurarsi contro alcun felino, perché riuscì a stringere un patto di ferro con Giorgia Meloni: il primo timido passo, proprio qui al Vinitaly, giusto un anno fa, con quel «vienimi a trovare a Roma e ne parliamo», colto dai giornalisti nel vialone fra i padiglioni, da cui tutto (ri)cominciò.

Topi, cene vip e (quasi) astemi

E allora è stato proprio Miccichè a fare la fine del topo col gatto. E il felino, stavolta, è Renato Schifani. Felpato e sobrio nel suo primo Vinitaly da presidente della Regione. Un moderato. Nel bere, così come nel concedersi alle effusioni dei produttori siciliani. Un mini-tour mattutino con il suo vice, Sammartino, platealmente definito «bravo, intenso, incisivo» e «con una lunga carriera, perché ha cominciato prestissimo», in conferenza stampa davanti a Luca Zaia. E poi Schifani, per garbo istituzionale e anche un po’ per ricucire dopo lo scontro sul fotovoltaico, concede il bis in un paio di cantine, accompagnando il ministro Adolfo Urso. Pochi assaggi, per Schifani, con uno strappo alla regola durante la cena vip di lunedì. «Ha molto apprezzato», dicono. Ma mai come l’ascetismo alcolico di Raffaele Lombardo. Il leader autonomista, pur orgoglioso uomo di campagna (non solo elettorale), è diventato per sua stessa ammissione «quasi astemio per ragioni gastriche». Magari avrà brindato dopo la liberatoria sentenza della Cassazione, prima della quale una delle rare concessioni fu durante il famigerato pranzo dei No-Nello, che costò al padrone di casa, Raffaele Stancanelli, la fatwa meloniana sulle Regionali e non solo. Insalata di mare, parmigiana, calamari e pesce spada arrosto con verdure grigliate: Lombardo a pasteggiare con un calice di prosecco, mentre Miccichè sceglieva in cantina una pregiata bottiglia di Barolo. Sappiamo com’è andata a finire.

La leghista “frizzantina”

E poi incontri Valeria Sudano. Sorridente e serena come se non fosse nel tritacarne del centrodestra catanese dilaniato sulla scelta del candidato sindaco. «Mi ritiro? Macché… Andiamoci a bere un frizzantino», ti dice senza tirarsela, come potrebbe, in veste di first lady dell’agricoltura – e quindi del vino – in Sicilia. E se, col dovuto garbo, si fa notare alla deputata leghista che sarebbe più chic chiamarle «bollicine», lei ti dà una risposta da macchina da guerra elettorale: «Se dico “bollicine” al posto di “frizzantino”, nei quartieri popolari non mi votano…».

Matteo Salvini, nel blitz al Vinitaly di domenica sera, le ha dato l’ennesima benedizione. «Valeria, brindiamo alla prima sindaca leghista di Catania». Ma da sotto il Vulcano arriva gelido il vento ostile di Fratelli d’Italia.

Certo, qui a Verona c’è pure Meloni, alla prima volta da premier. «Ma di Catania non ne parla. E poi io sono palermitano, perché lo chiedete a me?», si tira fuori con scaltra sobrietà Raoul Russo.

La “famigghia” dc

Fra gli stand anche Giuseppe Castiglione, oggi deputato di Azione, già apprezzato sottosegretario alfaniano all’Agricoltura. Scorta un gruppo di amici produttori veneti verso la degustazione del Marsala. «Candidarmi io a sindaco dopo il forfeit di Enzo Bianco? Me l’hanno chiesto…». E non erano ubriachi. E alla fine, come apoteosi del toto-sindaco etneo nella città di Giulietta e Romeo, la scena che si consuma in un ristorante nei vicoli alle spalle della Fiera. Si chiama “Ruggero”, ma Razza non c’entra nulla. Anche perché, in due tavoli casualmente prenotati alla stessa ora ma in sale diverse, s’incrocia il gruppo assessoriale con una comitiva del produttore Cuffaro, mattatore del padiglione Sicilia con i suoi vini, in compagnia della moglie Giacoma, entrambi col simbolo della Dc sulla cover del cellulare. Ed è al momento del dolce che si materializza il colpo di scena. «Cara Valeria, io ti voterei anche se non ti candidassi. Ma devi candidarti: quello lì (Sammartino, ndr) lo vogliono convincere, perché in fondo è diventato leghista. Tu non farti convincere da nessuno, ascolta quello che ti dice ’a famigghia…». In che senso scusi? «La famiglia, la nostra famiglia democristiana».In vino veritas.

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