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Dai limoni ai vivai, Venerando Faro “Sono un custode della natura”

L'imprenditore catanese, classe 1944, partito dal limoneto del papà è diventato un pilastro del vivaismo in Europa 

Di Carmen Greco |

Suo padre campava la famiglia vendendo i limoni di un piccolo appezzamento di terreno ad Aci S. Antonio. Lui, oggi, è a capo di un impero “verde” che fattura 30 milioni di euro l’anno. Venerando Faro è la classica figura dell’uomo che si è fatto da solo e che sorride quando gli chiedi se vuole essere chiamato “cavaliere” o “dottore”… «Sono la persona di sempre… certo, diventare dottore ad honorem (l’università di Catania gli ha conferito una laurea in Agraria poche settimane fa ndr) è stato un bel riconoscimento. Non me l’aspettavo, e non pensavo di emozionarmi come poi è accaduto…».

Come si diventa un azienda di rilievo europeo partendo dalla Sicilia? «Avevo 15 anni, mio padre era un agricoltore, aveva un piccolo limoneto ad Aci Sant’Antonio e la vendita dei limoni tirava avanti la famiglia, una famiglia di lavoratori. Non eravamo possidenti ma ce la cavavamo. Mio padre mi voleva mandare a scuola ma io non ne volevo sentire. Mi disse subito che sarei dovuto andare a lavorare e a me stava bene. Sin da piccolo sapevo che il mio mondo sarebbe stato nel verde, nel commercio».

È partito tutto da quei limoni? «In realtà dalle barbatelle (le piante di vite ndr) che mio padre acquistava a Milazzo e vendeva ad Aci S Antonio. Era un commercio che rendeva, ma durava poco da dicembre a febbraio. Io capii che dovevo trovare qualcosa che ci potesse permettere di guadagnare bene anche negli altri mesi dell’anno, così proposi a mio padre di occuparmi in prima persona delle barbatelle. Lui fu felicissimo, non amava viaggiare, al massimo sarà uscito dalla Sicilia due volte nella sua vita. Io invece a 18 anni mi comprai la macchina e con un mio amico di Milazzo andai a Pistoia che allora era il centro vivaistico più importante d’Italia per acquistare piante ornamentali. In realtà, non sapevo da dove cominciare, non distinguevo una rosa da un geranio. Un amico nel Messinese mi portò da un piccolo produttore e riempii di piante il furgoncino che avevo appena acquistato. In sette giorni ho venduto tutto nel garage di casa e capii di essere sulla strada giusta».

La vera svolta? «Nel ‘74/’75 quando acquistai ad Aci Sant’Antonio i miei primi 5000 metri di terreno. Li ho riempiti di piante e le ho vendute tutte. Era il periodo del boom edilizio, sull’Etna si costruiva e si lottizzava tutti dovevano abbellire case e villette, non avevo nemmeno il tempo di esporre le piante che già erano vendute. Poi, man mano he andavo avanti in questo commercio mi resi conto che in Sicilia c’erano poche varietà di piante ornamentali, il vivaio Allegra aveva chiuso e decisi che dovevo essere io ad occupare questa fetta di mercato. Comprai  4 ettari di terra con i soldi delle banche e realizzai il primo vivaio di produzione di piante ornamentali. Vennero quelli di Pistoia a comprare da me, lì capii che avevo svoltato».

Il successo è dipeso più dalla sua intraprendenza o dal momento favorevole? «Sicuramente era il momento giusto,  ma io nel frattempo cercavo di portare in Sicilia delle novità. Comprai altri 10 ettari nella zona di Carruba (dove c’è il quartier generale dei Vivai Faro ndr), e mi misi a girare il mondo in cerca di piante che qui non esistevano ma che avrebbero potuto adattarsi al nostro clima. Sono stato dappertutto Sudafrica, Australia, America, portavo qui semi e talee e producevo piante subtropicali e mediterranee. La gente comprava le novità oltre alla pianta tradizionale».

Se non fosse stato in Sicilia avrebbe avuto la stessa fortuna? «Non credo… Forse in un altro posto sempre al Sud, ma questa zona che va da Catania fino a Taormina ha un microclima unico in Europa dove si possono coltivare bene le piante subtropicali. Qualcosa hanno fatto anche a Palermo, sullo Stretto di Messina o a Milazzo ma lì non ci sono enormi estensioni di terreno come qui da noi e poi non hanno né la disponibilità d’acqua, né l’Etna». 

Quanto fattura il suo gruppo? «Circa 30 milioni l’anno, comprese le altre nostre attività, dal vino alla ricettività. Qui ora abbiamo 4-500 ettari di vivaio, siamo il più grande d’Europa per le piante mediterranee».

S’è mai sentito solo in questa cavalcata verso il successo? «Io mi sono fatto da solo, me la sono sbrigata da me. Certo, ho chiesto aiuto ai tecnici ma ho fatto crescere tanti ragazzi, persone che facevano altri lavori e che sono venuti da noi, oggi abbiamo circa 400 dipendenti».

Quant’è difficile fare impresa in Sicilia? «Il doppio di quanto possa essere a Milano. Intanto abbiamo il problema delle distanze. Noi il 50% del nostro fatturato lo vendiamo in nord Europa. Se parte un camion dalla Toscana per andare in Francia costa 1000-1200 euro; se parte un camion da qui ce ne vogliono già 3.500». 

E cosa può mettere sul piatto la Sicilia per colmare questo gap? «A Pistoia non trova la palma o la bouganville, perché c’è un clima più freddo. Quello che ci avvantaggia è la natura, il clima e il sole, cose che nessuno ci puo togliere, almeno questo…».

Si considera più un custode della natura o uno che la addomestica? «Un custode, io la natura la rispetto, noi creiamo tre milioni e mezzo di piante all’anno, e quando uno parte da un seme, fa una pianta e la fa crescere, vuol dire che dietro questa cura c’è amore e passione, non dico come per un figlio, ma quasi. Mia moglie mi dice sempre “se qualcuno mi dovesse dire di averti visto abbracciato a un’altra donna non ci crederei, ma a una pianta sì” (ride ndr)».

Il rispetto per la natura, per il paesaggio non fanno parte, però, dei comportamenti dei siciliani, qui intorno a Carruba ci sono tante microdiscariche… «È un problema che mi pongo sempre. Girando per il mondo il confronto è deprimente, all’estero c’è una cura per il paesaggio che qui ce la sogniamo, ma i siciliani sono fatti così e non me lo so spiegare. Prenderei un gruppo di sindaci e li metterei su un aereo per far vedere loro come si tengono pulite le città. Le deve dire che su questo fronte ho perso la speranza. Più di una volta ho preso un operaio con un furgoncino per fargli ripulire la strada che porta a Donna Carmela (il resort di proprietà del gruppo ndr) se passa un turistaae vede quella spazzatura ci chiede “Perché?”».

È stato appena eletto il nuovo presidente della Regione, cosa gli chiederebbe da imprenditore? «Nessun contributo, ma servizi e infrastrutture. E poi uno snellimento nella burocrazia. Se vuoi un’autorizzazione e vai in un altro Paese arriva in tempi “umani”, qui ci vogliono decenni. Questo è quello che distrugge la Sicilia. La burocrazia fa scoraggiare, se ho voglia di fare un nuovo vivaio, la quantità di pratiche che ci vogliono ti distrugge…».

Quindi a un ragazzo che volesse imitarla che direbbe? «Di essere testardo, sennò se ne va via, come tanti giovani talenti. Io i miei figli li ho fatti studiare qui e non me ne sono pentito. I miei nipoti non so cosa faranno. Un mio amico titolare di un’azienda importantissima a Ragusa ha mandato il suo unico figlio a studiare a Milano e adesso lui non tornerà. Probabilmente quest’azienda che fattura 200 milioni l’anno andrà venduta…».

Lei è un maestro degli innesti, cosa innesterebbe a questa regione? «Il problema è che quando si fa un innesto ci dev’essere il portainnesto buono… se non hai un buon portainnesto puoi mettere tutte le marze che vuoi… e qui il portainnesto buono bisogna ancora crearlo».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA