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Il pasticciere e il produttore con il pallino delle nocciole dell’Etna

Di Carmen Greco |

«Semu pazzi». Nino Berizia e Rosario di Francesco se lo dicono da soli. Ma come in tutte le “pazzie” c’è qualcosa di geniale e di maledettamente semplice: tornare a produrre nocciole sul versante nord dell’Etna, laddove – negli anni – le colture sono state abbandonate per far posto a pascoli, vigneti, uliveti, orti. La “pazza idea” di Berizia, pasticciere dell’Alhambra è quella di fare paste di mandorla, torroncini, mustazzola e “baronetti” (i baci artigianali che da soli valgono il viaggio a Linguaglossa ndr), con le nocciole coltivate dietro l’angolo «per poter dire che i miei dolci sono fatti al 100% con prodotti dell’Etna e anche per contribuire a sviluppare questo territorio da un punto di vista economico. Quando abbiamo parlato di questo progetto c’era chi si metteva a ridere, ora stanno cominciando a capire che si tratta di una scommessa seria».

Nino Berizia e Rosario Di Francesco

In questa sfida, ha trovato la collaborazione di Di Francesco, maresciallo della Forestale in pensione, che ha deciso di mettere a frutto le conoscenze acquisite in 40 anni di servizio sull’Etna e, al tempo stesso, di offrire al figlio trentenne la prospettiva di un futuro.

Insieme, hanno dato vita all’”Associazione Nocciole dell’Etna” (manca solo l’ultimo passaggio dal notaio ndr) e puntano a riportare il nocciolo fra le produzioni fiore all’occhiello dell’Etna. Il paradosso, però, è che ci si dovrà “accontentare” di sicilianizzare delle varietà italiane in quanto non esistono vivai in Italia che producano le cultivar autoctone (la “Comune di Sicilia”, “Carrello”, “Minnolara”, “Monte Bello”, “Locale di Piazza Armerina”, “Mansa”, “Ghirara”, “Santa Maria di Gesù”).

Nuove piante di nocciolo impiantate a Castiglione di Sicilia

Il punto per le nocciole siciliane è proprio questo: fino a quando non avranno importanza dal punto di vista commerciale non ci saranno né interesse, né fondi per sostenerne la produzione. La ragione dell’abbandono nei noccioleti sull’Etna è stata proprio questa. Nel 1980 in Sicilia c’erano 16mila ettari di noccioleti, poi negli anni, il 30% delle aziende gestito per lo più da persone anziane, ha chiuso e il trend è andato sempre più a calare. Di conseguenza si è abbassato il prezzo e molti agricoltori hanno abbandonato i noccioleti. Ora che è cambiata la generazione e che il mestiere del contadino sta appassionando anche i più giovani, l’idea di tornare a coltivare le nocciole, si sta riaccendendo.

«Per recuperare le cultivar siciliane bisognerebbe fare uno studio, prendere il germoplasma, metterle in produzione e fare le piantine. Ci vorrebbero cinque anni per produrle – spiega Di Francesco – ma nessuno se ne è mai occupato. Oggi su 100 milioni annui investiti sul vino solo 500mila euro vanno al nocciolo, una risorsa insignificante. Eppure basterebbero 20 milioni nell’arco di tre anni per poter reimpiantare tutti i noccioleti siciliani riportandoli alla sostenibilità economica». La nocciola sull’Etna copre i territori di S. Alfio (180 ettari), Piedimonte (30), Castiglione di Sicilia (450), Linguaglossa (110), ed altri comuni, per poco più di 1.000 ettari complesivi (ultimo censimento Istat Agricoltura del 2010). «In realtà – precisa Di Francesco – sono dati statistici, secondo me non superano i 700 ettari di cui solo 200 realmente produttivi».

Oggi l’unica strada per produrre nocciole sull’Etna è estirpare le vecchie piante “a ceppaia”, vecchie anche di 200 anni, e reimpiantare le nuove con un sistema ad albero, più facile da coltivare e da manutenzionare con mezzi meccanici. Cosa che Di Francesco ha fatto su 7 ettari espiantati nell’arco di quattro anni nella frazione di Cerro a Castiglione di Sicilia dove fanno bella mostra di sè alberelli – di 2 o 4 anni – delle varietà di Tonda di Giffoni, Mortarella e Riccia di Talanico, cultivar italiane che sul terreno vulcanico dell’Etna hanno trovato un casa ideale. C’è da dire che un albero di nocciolo produce bene dopo 4 anni, quando da ogni pianta adulta è possibile ricavano circa sette kg di nocciole (con il guscio) che rendono al netto 480 grammi per chilo.

Ma il maestro pasticciere ha pazienza. «Al momento – racconta Berizia – il 60-70% di tutto quello che faccio è prodotto con le nocciole di Milo, Sant’Alfio, Zafferana, le altre le compro fuori, ma sempre in Italia dove i maggiori produttori sono Piemonte, Alto Lazio e Campania. La scena internazionale, invece, è dominata da Arzebaijan, Turchia, Georgia, e si tratta di nocciole che vengono coltivate con fitofarmaci vietati in Italia, ma che rientrano dalla finestra perché la produzione nazionale è insufficiente e copre, al massimo, il 20% del fabbisogno».

Twitter: @carmengreco612

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