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Le rappresentazioni classiche dell'Inda

Siracusa: “Prometeo”, martire ribelle di un futuro desolato

Il cigolio stridulodi una cancellata apre la tragedia di Eschilo al Teatro greco su uno scenario apocalittico

Di Carmelita Celi |

Il rumore d’una cancellata sgangherata spezza i timpani ma è incredibilmente solenne ché, a modo suo, promette una “azione” che in “Prometeo incatenato” di Eschilo – apertura di stagione dell’Inda al Teatro antico di Siracusa fino al 4 giugno, regia di Leo Muscato, nell’italiano snello di Roberto Vecchioni, teatrale quanto basta nel contributo di Francesco Morosi – l’azione, dunque, sembra negarsi. E’ una stasi apocalittica e riarsa. Ruggine come erba. Dappertutto. E’ sulla ciminiera a cui è incatenato il titano, mortifica un sofisticato “reame” industriale che fu, ne è incrostata una cisterna. E poi quel binario morto, vivissimo nelle minacce dei “missi dominici” del potere – Kratos, Bia, Efesto, Oceano, Hermes – per cui Prometeo è diventato uno scandalo.

La vittima, il nobile martire della libertà, il primo dei grandi ribelli moderni abita qui. E per quanto (ir)riconoscibile possa essere, hic et nunc, la parete della Scizia, la “wasted land” da fine (o inizio?) del mondo è credibile, temibile, inappellabile. Come lo è Zeus, del resto, assente e incombente, persecutore, tiranno, duro di cuore, impenetrabile. Porta giustizia in sei tragedie su sette, solo qui, iniquo e invisibile, tuona ogni volta che quei ferri dismessi vibrano di scosse di luce. E in questa arrugginita desolazione (scena di Federica Parolini) è curioso vedere quanto il vuoto del futuro possa coincidere con quello del passato, la memoria ancora assente del primo corrispondere a quella già dissolta del secondo. E non è irriverenza, forse, accostare Philip K. Dick ad Eschilo, il “ricordo” dell’androide Roy Batty (“Ho visto cose che voi umani”) alle visioni frantumanti del “preveggente” Prometeo. Preceduto da Bia – Silvia Valenti, avvenente, sadico aguzzino in mini short che trascina il titano – il Kratos di Davide Paganini sembra un brutale ufficiale di polizia, efficiente anche nella vocalità urlata. Prova ripugnanza per ciò che sta per fare, invece, Efesto a cui Michele Cipriani, fabbro-saldatore in grembiule di pelle, conferisce un’umanità spezzata, zoppa come la gamba rigida che esibisce a mo’ di Hinkfuss pirandelliano.

I potenti sono ciechi, umiliano, sono paternalisti. Oceano il conformista (che Alfonso Veneroso caratterizza ai limiti della macchietta) sbuca dal suo antro, sorta di tubo corrugato, in tuta, insozzato di grigio e finta diplomazia. Più avanti, sarà la volta dell’ultimo dei “missi dominici”, Ermes che Pasquale di Filippo presenta in un misto d’intelligenza asservita e sicumera, un po’ Erode di “Jesus Christ Superstar”: petto nudo e giacca lamé, cerca d’intimidire Prometeo ma subisce lo scacco d’eroismo contento di sé e si vedrà costretto a considerare pazzo il titano che, punito da Zeus per aver dato il fuoco agli uomini, non vuol rivelargli il pericolo che minaccia il re dell’Olimpo.

Prometeo dirà il segreto a Io, la fanciulla che ha acceso il cuore di Zeus che la trasforma in giovenca mentre l’odio di Era la costringe ad errare all’infinito, delirante. Quasi una progenitrice d’Ofelia di “Amleto”, Io, confusa e delusa da una promessa d’amore mai mantenuta. Il suo ingresso in scena è annunciato da polifonie segnatamente dell’Est, a tratti in odore di canti macedoni e sonorità berbere, una cifra che Ernani Maletta (musiche) e Francesca Della Monica (direzione del coro) utilizzarono ampiamente in “Ifigenia” nel 2015.

L’impatto scenico di Deniz Ozdogan-Io è intenso: fisicità prepotente, canto vero innestato in una recitazione che sa un po’ di Ronconi e un po’ d’enfasi “antica”. E’ l’unica umana della tragedia ma, ahimè, dotata di corna bovine perciò sfiata e piange, parla e mugghia: la sventurata Io di Deniz è sanguigna, veemente, donativa e d’effetto è l’uscita di scena, arrampicata stancamente sui gradini della cavea. Non senza aver “mimato” la sua futura sorte d’affrancamento dall’Olimpo su corpi (e teste) delle Oceanine. Che sono francamente un gran bel colpo d’occhio, con catturanti “fermo-immagine”, coreuticamente e coreograficamente (Nicole Kehrberger) efficaci nella loro “mise” di donna-pesce (costumi appropriatissimi, tutti, questi più che mai, di Silvia Aymonino), pantaloni d’argento e leggera veste nera dalla lunga coda, di pesce, appunto. Impegnate musicalmente in interventi che danno un’idea di canto “a cappella” con un basso continuo da Carmina burana, sono governate da Elena Polic Greco, in scena con loro, e “arricchite” dalle allieve dell’Accademia del Dramma Antico. Fermo, riottoso, spezzato, “animoso”, dice la traduzione.

Il Prometeo di Alessandro Albertin non abusa mai della sua evidente prestanza fisica ma, al contrario, con ammirevole misura, mescola rabbia a toni di tragica pacatezza. Inchiodato e poi “seppellito” con le Oceanine dal (vero) fuoco in terra, Albertin si carica in toto d’una responsabilità narrativa che deve fare i conti con una presenza senza soluzione di continuità, messa a dura prova da una costante immobilità. Alla fine, la sua voce, più olimpica dell’Olimpo, mette a nudo la sua (e la nostra) incapacità di risolvere le sventure, lui, come noi, medico inabile che non sa guarirsi.

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