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Montante, il “romanzo criminale” che ha scandito la storia della Sicilia (e non solo)

Di Mario Barresi |

CALTANISSETTA –  L’associazione a delinquere di cui Antonello Montante viene ritenuto il dominus era «un autentico potere occulto, estremamente pericoloso», ma «non già parallelo» a quello dello Stato o della Regione, bensì «ad esso perpendicolare, in quanto intersecava le più diverse istituzioni, ai diversi livelli, finendo per controllarle, condizionarle o comunque influenzarle». È l’ultima definizione – non è dato sapere se la più efficace, ma di certo la più autorevole – del “sistema Montante”. E lui, l’ex paladino antimafia, è stato «il motore immobile di un meccanismo perverso di conquista e gestione occulta del potere che, sotto le insegne di un’antimafia iconografica, ha sostanzialmente occupato, mediante la corruzione sistematica e le raffinate operazioni di dossieraggio, molte istituzioni regionali e nazionali».

Così è, se vi pare. Eccole, le 1.732 pagine delle motivazioni della sentenza depositate ieri dal gup di Caltanissetta, Graziella Luparello, che ha condannato, fra gli altri, l’ex presidente di Confindustria Sicilia a 14 anni per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo a sistema informatico. L’antologia definitiva del Romanzo Criminale che ha scandito, nella realtà, la storia della Sicilia (e, in parte, del Paese intero) nell’ultimo decennio. Questa la sinossi: siamo davanti «a un fenomeno che può definirsi plasticamente non già quale mafia bianca, ma mafia trasparente, apparentemente priva di consistenza tattile e visiva e perciò in grado di infiltrarsi eludendo la resistenza delle misure comuni».

Nella trama, intrecciata e perversa, sfilano pezzi dello Stato, servizi segreti, ex ministri, ex governatori e politici assortii, oltre che macchiette, comparse e ominicchi. Ma il protagonista assoluto è soltanto uno. Ad assumere il «ruolo verticistico», con «compiti di direzione, promozione e organizzazione» è Montante, che «era l’associato che conosceva tutti i sodali, mentre è possibile che, tra alcuni di questi, non vi fosse una conoscenza reciproca». Era l’ex paladino dell’antimafia il “grande capo” che «ordinava gli accessi abusivi al sistema informatico»; che «riusciva a ottenere, mediante sistematiche azioni di corruzione, notizie segrete afferenti alle indagini o notizie riservate contenute nelle banche dati della polizia»; che «utilizzava il potere conquistato all’interno degli enti pubblici e privati quale bacino ove collocare i clientes e, dunque, quale moneta di pagamento rispetto ai favori illeciti che questi gli rendevano». E in effetti, per il gup Luparello, posti di lavoro, trasferimenti e promozioni non erano altro che «la valuta spesa da Montante per remunerare i sodali», una specie di «ripartizione degli utili prodotti da un’impresa che, con modalità illecite, creava e gestiva il potere». Eppure, con sottile ironia, il giudice ammette che all’imputato condannato a 14 anni di carcere «va doverosamente riconosciuto il diritto d’autore sulla nascita dell’“Antimafia confindustriale” quale forma di business utile a garantire un posto ai tavoli che contano».

E il “manifesto” – involontario quanto realistico – dell’attività (la «riproduzione plastica del fenomeno trattato», per dirla con le parole del giudice) viene fornita da Nazario Saccia, l’ex comandante del Gico di Caltanissetta, poi security manager dell’Eni. Luparello cita un’intercettazione in cui Saccia parla con l’allora collega Ettore Orfanello (ex comandante del nucleo di polizia tributaria delle fiamme gialle di Caltanissetta, fra gli imputati a Caltanissetta). «L’antimafia è un grande business… (…) è un grande argomento, ha portato avanti gente, un coglione e un deficiente come a Crocetta u purtau a fare u presidente della Regione… un Lumia che campa in Senato da novant’anni sulu parlannu suli stu fattu dill’antimafia… l’antimafia… chiddru nun capisce un cazzo di una minchia eppure è senatore da non so quanto cazzo di tempo…». E poi, naturalmente, Montante: «… minchia a Caltanissetta due anni fa… tre anni fa Antonello era il potere assoluto… assoluto anche al palazzo di giustizia compà…». Ed ecco quindi esplicitato il concetto di «antimafia confindustriale», la quale, «grazie alla complicità o la connivenza di soggetti appartenenti ad ambienti istituzionali diversi, era stata eretta quale laboratorio nel quale creare e distribuire posti di potere, in cambio del totale pronsimo dei pubblici ufficiali, lesti ad agire con fermezza squadristica al servizio di Montante, con complessivi esiti di adorazione messianica collettiva di quest’ultimo».

La difesa dell’ex leader confindustriale ha portato in tribunale una tesi completamente diversa – «lungi dall’essere il vertice del sodalizio criminale, era il paladino dell’Antimafia – che per il gup Luparello «non regge affatto». La «presunta attività di contrasto alla criminalità organizzata», come si legge nelle motivazioni della sentenza, «si limitava all’azione di denuncia condotta da pochi elementi (tra i quali Cicero) che, con una sorta di involontario naïf comportamentale e senza raffinati filtri critici, si immergeva in azioni di contrasto contro soggetti, alcuni dei quali, successivamente, si scoprirà essere stati oggetto di attenzione dossieristica da parte di Montante». Per sostenere la sua tesi, il giudice cita anche un’audizione dell’imputato in commissione nazionale Antimafia, il 6 luglio 2005. «Montante, dunque – sintetizza il gup – parlava di “cappa”, di “azioni trasversali” (fra i quali un «presunto episodio intimidatorio», ovvero il «rinvenimento di un proiettile innanzi l’abitazione», di cui «nessuno dei collaboratori di giustizia ha saputo riferire», ndr), di possibili ostruzionismi da parte di “istituzioni” e “poteri” deviati, senza alcun dato oggettivo a suffragio delle sue elucubrazioni», senza fornire «alcun dato oggettivo» nonostante le «ripetute sollecitazioni da parte dei componenti della commissione». Una supercazzola, le sarebbe venuto da dire. Ma il giudice usa una ben più raffinata metafora, quella del «teatro dell’assurdo», dove «i personaggi beckettiani attendono Godot senza sapere chi sia Godot e perché lo attendono». E, chiosa, «quando la scena si chiude, Godot non è ancora arrivato».

E allora Montante è «il demiurgo non già del linguaggio dell’antimafia, ma dell’antimafia del linguaggio». La quale «non oltrepassa la soglia delle parole, dei convegni, della vulgata mediatica, dei protocolli e delle iniziative dallo scarso risultato pratico». Sotto il vestito niente. Anzi no. Perché c’è un «golpe linguistico» nell’attività dell’ex paladino, «con sovvertimento del significato convenzionale» delle parole. “Mafia” non è più il 416-bis del codice penale, ma «il luogo nominale nel quale confinare tutti gli eretici alla religione di Montante, volta alla costruzione di un sistema di potere». E “antimafia” non è il sano fronte di lotta a Cosa Nostra, bensì «il santuario degli osservanti morigerati del pensiero di Montante», che usavano «le audizioni in commissione antimafia, i convegni sulla legalità e la sottoscrizione di codici etici» come se fossero «pratiche liturgiche, dirette ad assicurare, più che l’ascesi, l’ascesa sociale e l’occupazione di posti di potere».

O con lui o contro di lui. O di qua o di là. Montante «autoinsignitosi paladino dell’antimafia» aveva «esteso tale etichetta ai suoi amici e sodali, dichiarando mafiosi i suoi avversari, in difetto di qualsivoglia prova di mafiosità». Il dissenso veniva «regolarmente spento mediante l’opera di squadrismo» assicurata anche da «una Guardia di finanza nissena di fatto ormai privatizzata e al soldo di Montante». Nessuno poteva contraddirlo, «neppure l’allora ministro dell’Interno Alfano, come da lui affermato» poteva permetterselo. E nel 2013, «a sostegno della presunta “primavera degli industriali”, era stato persino “delocalizzato” – rammenta il gup – il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica, che, senza alcun precedente della storia della Repubblica italiana, si era riunito a Caltanissetta». Per il giudice «un’autentica genuflessione istituzionale» a casa del paladino della legalità. Calogero Antonio Montante, detto Antonello. Che, nel 2015, «nel pieno della bufera mediatica» dell’indagine per mafia, «riusciva persino a farsi rafforzare il servizio di scorta».

Twitter: @MarioBarresi

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