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La pizza di Tourè nell’Italia distratta

Di Alessandro De Filippo |

A 17 anni la vita di Mamadou ricomincia, dopo i traumi e le paure che hanno punteggiato il suo viaggio lunghissimo e terribile, di cui non ama parlare.

A scuola, Mamadou si dà da fare. Dopo le prove d’ingresso, viene inserito in un gruppo intermedio, tra A1 e A2. Al Cpia (Centro provinciale istruzione adulti) si lavora per “classi aperte”, tenendo conto di una serie di variabili: le strategie didattiche devono adattarsi a seconda della lingua ponte dell’alunno, solitamente inglese o francese; d’altra parte è impossibile tenere insieme chi è già scolarizzato nel proprio Paese d’origine, con chi ha frequentato solo una madrasa o, peggio, non è mai entrato in una classe, perché ha sempre lavorato in campagna.

Mamadou è sempre presente e puntuale a lezione. È attento e pronto a intervenire, con la sua mano alzata e lo sguardo che dice: «Io io!». Però è rispettoso dei compagni e mai prevaricante. Ha qualche difficoltà a leggere, soprattutto, per certi difetti di pronuncia, ma ha una grande forza di volontà.

A lezione di tecnologia, con il professore Franco Carrubba, impara come si fa una pizza: scrive gli ingredienti sul quadernone e li legge ad alta voce, fiero del suo italiano conquistato. Il professore registra l’audio per realizzare un podcast da mettere on-line, con tutte le voci di tutti i ragazzi. Mamadou è orgoglioso di aver partecipato a questa lezione originale, un metodo innovativo di fare scuola e sperimentare ogni giorno qualcosa di diverso, di sconosciuto e stimolante. Perché la scuola, per i ragazzi stranieri, è una soglia. È una porta che si apre su un mondo nuovo. Si può abitare a Catania, chiusi dentro una comunità d’accoglienza per otto mesi, senza sapere che quella montagna lì, quella che si vede dalla finestra ogni mattina, in realtà non è una montagna, ma un vulcano. Non deve sorprendere. L’isolamento è tale, se non c’è opportunità di dialogo, se non si parla neanche delle cose futili con le persone “di fuori”. La comunità diventa allora luogo di segregazione, anche se ogni ospite può entrare e uscire liberamente. Ma dove andare? E con chi parlare? Certo, si può andare alla Villa Bellini, dove si incontrano altri ragazzi stranieri, che parlano la stessa lingua madre. Non il francese o l’inglese, che sono le lingue ufficiali della burocrazia, ma il bambara, il fula, il wolof, il mandeng. La scuola si contrappone a questa immobilità dell’esistente. Apre le porte dell’Europa e si fa confine permeabile. Questa è la sua missione, da sempre. Perché la scuola è inclusione sociale.

Il vitto, l’alloggio e la sanità sono elementi essenziali di qualsiasi politica di accoglienza, non c’è dubbio. Ma una persona non corrisponde alla somma dei suoi bisogni primari. C’è altro, c’è qualcosa in più che occorre offrire, perché sia vera accoglienza. Ed è l’intercultura. Provo a riprendere qui le parole dell’imam della moschea della Misericordia di Catania, Kheit Abdelhafid, che a un incontro con gli alunni stranieri del Cpia ha suggerito: «Non integrazione, ci vuole interazione». Interagire vuol dire rivolgersi la parola, dialogare, confrontarsi tra culture diverse e distanti: l’intercultura è la strada maestra. La scuola lavora su questo, così come i progetti interculturali programmati dallo Sprar o da Casa dei Popoli, che hanno costituito a Catania due decenni di buone pratiche. E questa dovrebbe rimanere la linea politica ed etica da perseguire.

Il 13 marzo la prefettura di Catania delibera invece il trasferimento per Mamadou. È diventato maggiorenne e non ha più diritto alla protezione dei minori non accompagnati. Viene portato a Grammichele, in un istituto che non prevede nessun progetto interculturale, nessun programma scolastico. Niente. Lo chiamiamo al telefono, da scuola. È sconsolato: «Qui non si fa niente, solo mangiare e dormire». Tre mesi di scuola, un efficace percorso di inclusione sociale, energie messe a profitto, tempo e fatica, voglia di fare, entusiasmo per le conquiste didattiche: il presente dei verbi, l’imperfetto e il passato prossimo. E poi? Tutto interrotto. Nuove ferite si aggiungono alle vecchie, un nuovo spaesamento, un nuovo isolamento.

È la legge che lo prevede. «E gli è andata bene – ci dicono gli educatori della comunità – poteva finire al Cara di Mineo». Un centro mastodontico e disorganizzato, in mezzo al nulla della campagna di Mineo: 4.000 persone stipate in condizioni igieniche e abitative inaccettabili.

Questa è l’incoerenza di un Paese distratto, che spende i propri soldi per costruire qualcosa e poi sfaldare quanto di buono ha ottenuto. Questa è l’incongruenza di un’intercultura a singhiozzo, a targhe alterne. Dov’è la ratio di queste scelte? O, meglio, c’è una ratio, un disegno complessivo? Qualcuno le ha pensate queste decisioni o è semplicemente la banalità del male?

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