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La morte del boss in carrozzella: si è spento in carcere Alfio Laudani (portando con sé i segreti del clan)

Figlio del patriarca Sebastiano, tentò di scampare al carcere perché “incapace di intendere e di volere”: numerosi  omicidi contestati ed ergastoli inflitti

Di Concetto Mannisi |

Adesso dovrà dare conto delle sue azioni direttamente al Padreterno! Alfio Laudani, che avrebbe compiuto 76 anni nel prossimo mese di luglio, è morto alcuni giorni fa nel carcere di Opera, a Milano, dove stava scontando diverse condanne all’ergastolo. Si è portato dietro i segreti di una famiglia storica del panorama mafioso catanese, anche se a tal proposito proprio il padre di Alfio, Sebastiano (foto a lato, a colori), morto nell’agosto del 2017, aveva sempre rifiutato sdegnosamente questa etichetta: «Noi non siamo mafiosi, siamo uomini d’onore». Che poi, la differenza, valla a trovare….

Alfio Laudani è stato forse il più scaltro dei suoi quattro fratelli. Due – Gaetano e Santo – sono morti sotto i colpi dei killer rivali, gli altri due – Giuseppe e Mario – hanno rivestito una posizione di secondo piano all’interno di un gruppo in cui pare che proprio Alfio abbia lungamente deciso, con l’avallo del padre (anche da detenuto), alleanze e strategie.

Fra gli ultimi dei “Mussi di ficirunia” (i Laudani, per l’appunto) a vedere le manette scattare attorno ai propri  polsi, Alfio pare fosse anche dal… malore fin troppo facile; in realtà ebbe un ictus con cui cercò di evitare ripetutamente la “visita” obbligata alle patrie galere, facendosi pure dichiarare incapace di intendere e di volere, ma dopo diverse perizie e nonostante l’utilizzo della sedia a rotelle gli toccò alzare bandiera bianca e “soccombere” davanti alle ripetute accuse di omicidi e di altri fatti di “onore”. Pardòn, di mafia!

Uno degli omicidi che gli è stato contestato è stato quello  di Alfio Gambero (“Alfio ’a Cuffari”), un ex pilota di macchine da corsa assassinato il primo luglio del 1984 all’interno dell’allora rifornimento di carburanti “Gulf”, fra Tremestieri e Pedara, in contrada Ombra. L’omicidio sarebbe stato consumato dall’uomo assieme agli attuali collaboratori di giustizia Pippo Di Giacomo e “Alfio ’a pipa” Giuffrida, nell’intento di eliminare alcuni “cani sciolti” che imperversavano in quella zona, facendo estorsioni a titolo personale e non esitando pure a a premere il grilletto: uno di costoro avrebbe ucciso, anzi, Sebastiano Grasso, considerato elemento di vertice proprio del clan dei “Mussi”.

Gambero fu freddato mentre giocava a carte all’interno della stazione di servizio da due killer arrivati a bordo di una “Fiat 128” bianca rubata e successivamente data alle fiamme. Nell’occasione i pallini di una fucilata di Laudani  raggiunsero anche Alfio Giuffrida, costretto poco dopo a farsi medicare in casa di un congiunto.

Laudani è stato poi condannato per altri omicidi consumati fra l’85 e il ‘96. Quelli di Giovanni  Castiglia, Salvatore Messina, Alfio Savoca, Salvatore Pellegrino Prattella,  Salvatore Pasquale Magrì, Gaetano  Atanasio, ma anche per il tentato omicidio di  Provvidenza Atanasio.

Inoltre nel novembre 2009 subì una importante confisca emessa dal Tribunale di Catania.

La misura in questione fu conseguenza di indagini condotte dal Nucleo di polizia tributaria delle Fiamme gialle sul patrimonio di alcune aziende catanesi – la “Rizzo Costruzioni S.r.l.” e la “C.G. F.lli Rizzo S.n.c.»”, con sede in S.Agata li Battiati – riconducibili, come detto, ad Alfio Laudani e gestite a quel tempo dall’imprenditore Carmelo Rizzo, accusato di essere un prestanome della famiglia e poi assassinato nel febbraio del 1997.

Oltre ad appurare stretti legami bancari e finanziari fra il Rizzo ed il Laudani, i finanzieri scoprirono pure  che il Rizzo sottraeva parte degli utili aziendali, destinandoli a finalità private. In parole povere, avrebbe sperperato senza alcuna autorizzazione il denaro della cosca. Una cifra imponente, fu detto a quel tempo, pari a circa due miliardi delle vecchie lire.

Avendo avuto sentore, forse, di essere stato smascherato dai suoi “dante causa”, Rizzo avrebbe tentato pure di ripianare il disavanzo con prestiti fittizi “concessi” dalle sue stesse imprese. Questo comportamento, unito al timore che il Rizzo in caso di arresto avrebbe potuto pentirsi, consentendo che la reale titolarità dei beni fosse scoperta e quindi sottratta agli esponenti dell'organizzazione, ne decretò verosimilmente  la condanna a morte. Una condanna che venne eseguita il 24 febbraio 1997 con un colpo di pistola alla testa: il corpo fu poi trasportato in aperta campagna e dato alle fiamme per ritardarne l'identificazione.

Ad Alfio Laudani, in ogni caso, vennero confiscati imprese e i relativi patrimoni immobiliari, costituiti da venti immobili fra ville, magazzini, fabbricati di vario genere, ed appezzamenti di terreno per un ammontare di circa sei milioni di euro. COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA