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la commemorazione

Quarant’anni senza Giuseppe Fava: quando il Maestro scriveva di mafia così

Il ricordo del giornalista ucciso a Catania il 5 gennaio del 1984. Qui un articolo uscito su La Sicilia: "I poveracci e i dominaddio"

Di Redazione |

Le celebrazioni per ricordare Pippo Fava sono cominciate ieri pomeriggio con l’assemblea aperta sui beni confiscati che si è tenuta nei locali della discoteca confiscata Empire. Dopo la conferenza c’è stato lo spettacolo teatrale Librino di Luciano Bruno. Oggi alle 11 ci sarà l’assemblea dei Siciliani Giovani al Giardino di Scidà e sarà conferito il premio Siciliani Giovani. Alle 16 partirà il corteo da piazza Roma fino a via Giuseppe Fava. Alle 17,30 si svolgerà il presidio davanti alla lapide commemorativa nel luogo dove fu ucciso il giornalista. Alle 18, al Centro Zo, ci sarà l’incontro per la consegna del premio giornalistico a Ciccio La Licata, che sarà moderato dalla giornalista Luisa Santangelo.

di Giuseppe Fava

Mettiamo che uno voglia vendere fiori, anzi più esattamente ghirlande di fiori per funerali. Attrezza la bottega, assume due o tre lavoranti, espone una bella insegna, cerca un accordo con un coltivatore di fiori che gli possa fornire ogni giorno tante dalie, tanti gladioli, tante rose. Ora io non so onestamente se gladioli e rose si adattino alle ghirlande da morto, ma stiamo parlando a mo’ di esempio. Dunque il nostro uomo ha tutto quello che gli serve, ma ha contrattato una fornitura di fiori solo per la metà di quello che gli serve. Gli altri fiori di cui avrà bisogno se li procurerà in un cimitero, sfilando i più freschi, qua e la, dalle ghirlande che rendono omaggio a coloro cui è toccato trapassare giusto quel giorno. E’ molto più semplice di quanto non si pensi: naturalmente è necessario che sia d’accordo anche uno dei custodi del cimitero. L’esempio non è macabro, anzi è quasi divertente.

Ogni sera il nostro solerte operatore in ghirlande da morto, va a prendersi al cimitero i fiori che gli servono per completare i suoi bouquet. Paga bene, per quanto ovviamente possano essere ben pagati i fiori rubati sulla tombe.Purtroppo la sua iniziativa ha turbato un accordo preesistente fra il custode del camposanto (possono essere anche piccoli camposanti di provincia) e altri operatori economici del settore che avevano avuto la brillante idea e assunto l’iniziativa qualche tempo prima. Il mercato dei fiori da morto usati, insomma, viene turbato. Un giorno il nostro uomo sta dinnanzi alla sua bottega, già abbastanza fiorente; dal vicolo sbuca lentamente un’auto dal cui finestrino si protendono per un attimo due canne mozze. Due detonazioni. Da pochi metri è come se arrivasse una cannonata che solleva l’uomo d’un palmo e lo fa cadere a braccia e gambe spalancate in mezzo alle corbeilles. Fiori usati probabilmente anche per il suo funerale. Oppure accade che il custode del camposanto, ti quale ha concluso patti di esclusiva, sottobanco venda fiori anche a un concorrente. Adempiuta la sua pietosa bisognaquotidiana egli sta facendo ritorno a casa: la strada che dal cimitero conduce all’abitato è In discesa e l’uomo la percorre in bicicletta, lievemente, senza pedalare. Dal buio due lampi gli sfondano le spalle, l’uomo oramai morto resta miracolosamente in bilico sulla bicicletta ancora per una ventina di metri. Un numero di acrobazia inaudita. E’ accaduto!

Terra vale zero. Mettiamo ora invece che in una valle al centro della Sicilia ci siano distese di terra senza un albero, senza una casa; pietre e sterpi, rigagnoli di fango, solo qualche abituro di pastore che, nelle sue migrazioni, si è costruito un riparo ammucchiando le pietre controvento e coprendo quei muri con un tetto di canne. Così per decine di chilometri, un’altura dopo l’altra. Quella terra vale zero.Non c’è acqua, non c’è riparo, non esiste humus, non cresce nemmeno l’erba per gli armenti. Qualcuno certo è proprietario di quelle estensioni, magari sono centinaia o migliaia di piccoli proprietari, ma è come se possedessero vento. Invece, improvvisamente, accade che qualcuno cominci a comperare quella terra, individua i proprietari, li contatta uno ad uno, racconta magari che vuol tentare un allevamento di bestiame (senza acqua, senza erba, mah.. !) e, ad uno ad uno, compera gli appezzamenti, centinaia, migliaia di ettari, il deserto.

Naturalmente paga un prezzo infinitesimale; che prezzo può avere una terra che non produce nemmeno fieno e che molti degli stessi proprietari si sono persino scordati dì possedere? Il fatto è che, nelle altissime stanze dove si amministra il denaro pubblico, è stato deciso finalmente di redimere al lavoro umano quella zona, di tentare II recupero agricolo di una piaga, e quindi di costruire una diga che, utilizzando le acque disperse di torrenti, ruscelli e fiumiciattoli, praticamente utilizzerà come bacino tutta quella vallata che abbiamo descritta. Per costruire la diga e coprire di acque quella terra, bisogna che lo Stato comperi la terra stessa, quelle centinaia, quelle migliaia di ettari. E il prezzo degli espropri non è mai un prezzo reale, è un prezzo politico, deve tenere conto di una infinità di considerazioni, di cavilli, di necessità, di urgenze, naturalmente qualche volta anche di amicizie. Cioè è un prezzo che paga troppo poco, oppure troppo.

Ed ecco che colui il quale (informato con mesi, anzi con anni di anticipo, da coloro che sanno) ha comperato tutta quella terra pagandola due soldi, improvvisamente ora può chiedere per l’esproprio dieci volte, venti volte di più. Si spende un miliardo e se ne guadagnano venti. Si investono dieci miliardi e se ne guadagnano duecento. D’un tratto però primo colpo di scena.

Dopo tormentose meditazioni, nelle altissime stanze si è capito che quella zona non è la più adatta per l’invaso delle acque. II terreno è argilloso, ci sono smottamenti, si perdono troppe acque che invece sono sicuramente recuperabili più a valle o più a monte, sicché è stato deciso di spostare la diga dieci chilometri più in basso, o dieci chilometri più in alto, oppure nella valle adiacente. Secondo colpo di scena: qui le terre sono state però già acquistate da misteriosi trust di finanziatori che avevano saputo conoscere ancora più esattamente, li futuro tecnico della diga e prevederne le modificazioni. Improvvisamente accade cosi che un personaggio, magari molto rispettato, o potente veda sbucarsi dinnanzi tre uomini armati di mitra e calibro trentotto. Gli stanno pagando l’equivalente di dieci o venti miliardi.

Non ha nemmeno il tempo di farsi la croce. Prima di lui o dopo di lui altri sono morti così o moriranno, per i capricci di quella diga — che prima di erogare acqua distribuisce miliardi: piccole pedine di un ingranaggio gigantesco, legati l’uno all’altro da fila Invisibili che solo loro conoscono. E infatti, in questi casi, soltanto chi muore riesce a capire perché sta morendo Quasi mai colui che lo uccide poiché è solo un esecutore; gli è stato dato mandato di eseguire quella sentenza e la esegue perché, per suo conto, è legato da altre invisibili fila, in altra direzione. Non può dire dì no! E’ stato assunto per uccidere, senza chiedere mai perché.

Abbiamo portato due esempi precisi (i fiori da morto e la grande diga) di interessi mafiosi possibili, quello infimo e quello immenso, la mafia dei poveracci che sì scannano per le cose miserabili della vita e la mafia del dominaddio. Nel paradigma della violenza: l’una e l’altra hanno avuto sempre in comune un elemento: la corruttibilità del custode del camposanto e del custode del pubblico denaro.Ogni tanto dalla mafia degli stracci, questa palude feroce, un groviglio di cani affamati e Insanguinati, emerge qualcuno, più feroce 0 Intelligente degli altri e lentamente cerca dì portarsi al livello del potenti. Quasi sempre viene ricacciato giù, oppure ci lascia la pelle per strada, ma talvolta miracolosamente, continuando sempre ad uccidere prima degli avversari, arriva al dominaddio.

Che sono i padroni del grandi affari, l’uomo politico che può manovrare venti o trentamila voti di preferenza, l’altissimo funzionario che ha potestà di spostare carte, progetti, appalti, forse anche iI magistrato che, con una sola firma, può annientare una cosca e trasferire questa eredità di potenza al gruppo nemico. Oh, certo, l’ex straccione non può sedersi accanto a loro, gli manca classe e cultura, la genitura sociale, ed oltretutto è quasi sempre compromesso, ma trattare alla pari si, dare e pretendere, allearsi e colpire Genco Russo, campagnolo saggio e prudente, fu uno di questi. Luciano Liggio avventuriero e spavaldo lo è ancora.

Per intendere bene la Sicilia, questo grande spettacolo umano nel quale farsa e tragedia si rinnovano continuamente, bisogna intendere la mafia. Quanto meno conoscere e cercare di interpretare iI suo diagramma esistenziale. Allora torniamo indietro di dieci anni, cioè al periodo successivo alla strage di Ciaculli. C’era stato un tempo storico (parlando di mafia bisogna scomodare iI vocabolo) in cui la mafia sembrava definitivamente padrona di tutto, non soltanto cioè delle attività economiche privilegiate, ma anche In larga parte della pubblica amministrazione.Il primo potere veniva esercitato accaparrando, con la violenza, qualsiasi attività che producesse e amministrasse ricchezza, gli appalti dei lavori pubblici, le aree edilizie, il rifornimento dei mercati cittadini; il secondo potere, più sottile e sfuggente, più difficile da conquistare e mantenere, veniva esercitato invece con iI ministero dei voti elettorali, in modo che alcuni uomini politici, quelli che contavano nelle massime decisioni, sapessero da quale parte venivano migliaia di suffragi e, come spostati in altra direzione, avrebbero potuto far franare la sua potenza ed esaltare quella dell’avversario.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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