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Editoriali

Immigraziome, sarebbe ora di volare alto

Di Sandro Corbino |

Quanto sta accadendo sotto i nostri occhi in quella che è (come Lampedusa) la “frontiera” più avanzata d’Europa e quanto sta emergendo – con sempre maggiore nettezza – in ordine alle profondissime divisioni “ideologiche” che dividono la politica (non solo italiana) mi induce ad avventurarmi (rompendo un tabù che mi ero dato per l’argomento, con quelli della guerra e del clima) su un tema spinosissimo come l’immigrazione. Sicuro di niente, ma anche preoccupato di molto. 

In questa sede, si può ovviamente essere solo sommari.

La questione è stata per decenni affrontata con politiche varie. Nessuna delle quali ha funzionato. Non ha funzionato quella (rivelatasi nel tempo addirittura disastrosa) di chi ha “confinato” gli immigrati in quartieri dedicati (vedi le banlieue parigine). Ma stanno funzionando sempre meno anche quelle di chi ha battuto la strada di una maggiore “indifferenza” verso la collocazione fisica degli immigrati. Il problema è fuori controllo dovunque.

Fino a non troppi anni addietro, si è ritenuto che l’immigrazione fosse gestibile combinando le esigenze (individuali) di chi aspirava a sottrarsi alle difficili condizioni dei luoghi di origine con quella di potersi giovare di più lavoro e a più favorevoli condizioni di mercato. Lasciando perciò dipendere i flussi (con più ordine in qualche caso, con più approssimazione in altri) dalle esigenze dei Paesi di destinazione, che li regolavano con discipline proprie.

I migranti di oggi non accettano più di dipendere da quelle discipline, indipendentemente dal loro funzionamento. Ha preso il sopravvento l’impetuoso bisogno di tantissimi di sottrarsi – anche a costo di forzare la mano nei luoghi di approdo – alle loro disagiatissime condizioni, alla povertà e alle vessazioni di regimi corrotti, che fanno spesso della prima addirittura uno strumento del loro potere. Il fenomeno ha assunto una connotazione nuova. Le spinte economiche di “miglioramento” tendono a cedere il passo a ragioni di “sopravvivenza”. Chi può “invia” anche figli ancora bimbetti. Sfidando le insidie del modo. 

La situazione sta generando laceranti divisioni. 

Si registrano due diverse direzioni di fondo. Una “umanitaria” (che si giova dell’importante contributo della Chiesa cattolica) e una “difensiva”. La prima piace molto alle sinistre “intellettuali”. La seconda vede convergere abbastanza sinistre e destre “di governo”. Ferme (tutte) sulle logiche antiche. Subordinano (nei numeri) l’accoglienza a criteri di sostenibilità economica. Con maggiori/minori difficoltà, in ragione di risorse, condizioni congiunturali, capacità organizzative. Quando il problema non può esserlo più soltanto. Non lo è per i richiedenti, ma non lo è nemmeno per chi accoglie. Conteranno presto “anche” meno avvertite (ma presenti) ragioni demografiche. Né possono ignorarsi le diverse cause delle pressioni (quelle dall’Africa non sono le medesime delle più occasionali, come la guerra europea) e la conseguente (molto) differenziata condizione culturale di quanti premono su un’Europa già alle prese con le difficoltà di gestire il superamento (in corso) dello stato “nazionale”.

Non ho naturalmente ricette. Ma trovo del tutto evidente che non possano condividersi né la linea “umanitaria” né quella “difensivista”. La prima perché si sottrae a qualunque ragionevole “praticabilità” (parliamo di centinaia di milioni di aspiranti potenziali). La seconda perché confida in una “unilateralità” di determinazione non meno irrealistica. Non sta funzionando con evidenza né quando adottata da governi “di sinistra” (vedi Francia, Germania o Spagna) né quando da governi “di destra” (vedi Inghilterra o Grecia). La linea “difensivista” spinge solo verso livelli di intransigenza che stanno “già” facendo venir meno ogni coesione europea. Nulla la espone come il nostro problema.

È miope puntare su condizioni (naturali) di vantaggio, come scarsa esposizione al mare (e comunque distanza dai luoghi di partenza) o possibilità di controllo materiale delle frontiere. Opporre barriere non basterà. Chi lo fa dovrà ricorrere alla forza (sta già cominciando ad accadere). Potrà farlo. Ma nella riprovazione universale e con effetti comunque deflagranti giacché in contraddizione con le ragioni fondanti dell’UE. Farà ripiombare verso politiche economiche e finanziarie di convenienza momentanea. Verso alleanze mobili. Alimenterà tensioni, forse guerre.

Non è meno miope assecondare la linea “umanitaria”. L’idea che dovremmo rassegnarci ad un nuovo spazio politico (l’“Eurafrica”) è di certo una possibilità che i numeri giustificano. Per essere “politico” uno spazio deve però essere governabile. Richiede “cultura” condivisa. Esige secoli di convivenza.

La storia europea ha già conosciuto il “crollo” (non il “superamento”) del suo millenario sistema politico (quello creato dai Romani) per le pressioni (allora militari) di popolazioni “di frontiera”. La storia ha sempre ragioni proprie. E l’Europa non è Roma. Ma il prezzo di non avere potuto/saputo fronteggiare quelle pressioni è noto. Perché la “nuova” Europa, nata cioè da quella “improvvisa” (in un secolo o poco più) dissoluzione, raggiungesse un ordine sostitutivo dell’antico in grado di farla riprendere a progredire (anche socialmente) sono stati necessari più o meno mille e trecento anni. Nell’immediato (e per molti secoli) fu solo povertà. Roma passò – abbastanza rapidamente – da un milione a 30.000 abitanti, molti dei quali ridotti ad abitare le rovine delle antiche costruzioni.

Fenomeni incontrollati (“sconvolgenti” per le dimensioni) possono bene dunque travolgere anche ordinamenti consolidati. Quale il nostro nuovo (liberale e democratico) per altro non può dirsi ancora. Vive una crisi di adattamento (guerre mondiali e loro esiti, non solo “politici”) ancora in corso. Se ne constata da tutti la fragilità. Cosa accadrebbe lasciando mano libera (per modi e tempi) alla trasmigrazione? Sono bastate poche (quali restano ancora, in termini assoluti) presenze disordinate (dove già se ne registrano di “interne”) a trasformare le nostre città in luoghi invivibili. Se esse si moltiplicassero rapidamente (come si incoraggia a tollerare) migliorerebbe la condizione di quei disperati o si dissolverebbe soltanto quella degli attuali europei?

Dovremmo mirare – per quel che vale il mio punto di vista – ad “estendere” (attraverso politiche coordinate di lungo periodo, capaci di affrontare la complessità del problema) e non ad “estinguere” (come stiamo facendo)  i faticosi traguardi di civiltà conseguiti in oltre un millennio di duro cammino. Anche per riparare a politiche europee che – in Africa, in particolare – sono state nell’ultimo secolo e mezzo (con responsabilità generali), più che di “colonizzazione”, di “devastazione”. COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA