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Le giuste metriche per valutare il “peso” delle start up innovative

A margine dell’interessante momento di confronto su Catania, da Milano del Sud all’Etna Valley, organizzato da questo quotidiano e dalla DSE, ci siamo chiesti con alcuni giornalisti ed imprenditori in che modo valutare e misurare il contributo all’economia locale di start up

Di Rosario Faraci |

A margine dell’interessante momento di confronto su Catania, da Milano del Sud all’Etna Valley, organizzato da questo quotidiano e dalla DSE, ci siamo chiesti con alcuni giornalisti ed imprenditori in che modo valutare e misurare il contributo all’economia locale di start up. Ad esempio, Guardian Safely Around fondata da Antonio Leonardi e i suoi amici, fresca vincitrice del premio Innovazione Sicilia, che ha già registrato l’encomiabile traguardo dei 30mila download a poche settimane dal lancio ufficiale della loro applicazione mobile sulla sicurezza delle persone e delle donne per strada. In che modo valutare, dunque, le start up?

Guardarle con occhio di benevolenza, perché si tratta in fondo di esperienze di nuova imprenditorialità, spesso giovanile, che provano a scardinare la leggenda metropolitana che fare impresa al Sud sia impossibile e che i giovani pensino solo al posto fisso? Onestamente, parlare così delle start up sarebbe irriguardoso nei confronti dei loro fondatori, innovatori ricadenti nelle generazioni Z e dei Millennials, che molto spesso sono persone assai istruite e qualcuno pure con una discreta pregressa esperienza di successo nel mondo del lavoro.

Guardarle con gli occhi della fiducia, perché sono nuove realtà organizzative che – grazie a giovani “intraprenditori” prima ancora che imprenditori – stanno introducendo nuova linfa di imprenditorialità e iniettando massicce dosi di speranza nei nostri territori? Come Catania e le città del Mezzogiorno che scontano problemi di ordine più generale, vedi la migrazione dei laureati, l’alto tasso di Neet, l’abbandono scolastico, la modesta alfabetizzazione numerica, alfabetica e digitale. Oltre al secolare problema della disoccupazione giovanile e femminile. Anche in questo caso, onestà intellettuale vuole che le start up non possano essere la panacea di tutti i mali, per compensare la lentezza con cui la burocrazia pubblica e la politica affrontano spesso i reali problemi dei territori del Sud.

Guardarle con gli occhi di chi è abituato a fare impresa? Gli imprenditori “senior”, navigati e che la sanno lunga, guardano spesso con occhio critico le start up perché, sebbene abbiano idee interessanti ed innovative, fanno poi fatica ad arrivare sul mercato e hanno comunque fatturati, investimenti e numero di dipendenti assai modesti. Quisquiglie, direbbe Totò, di fronte a storie di vere imprese che girano decine di milioni di fatturato, danno lavoro a centinaia di persone e pane alle loro famiglie, creano un indotto.Giusto il rilievo, ma anche in questo caso, parlare così delle start up sarebbe irrispettoso, perché lo spirito della legge 221 del 17 dicembre 2012, istitutiva delle start up innovative, è un altro.Se ci fermassimo alle classiche metriche aziendali, avrebbero ragione gli imprenditori senior e navigati. Da una nostra indagine, effettuata con l’ausilio di una banca dati economico-finanziaria dell’Università di Catania, su un totale di 13.301 start up italiane, la media fatturato è di 173mila euro, quella del personale è di 1,3 dipendenti. L’aggregato considerato vale poco meno di due miliardi di euro di ricavi, per un totale di 16.738 persone impiegate. Non è con queste metriche che si valutano però le start up. “Non è mica da questi particolari/che si giudica un giocatore/un giocatore lo vedi dal coraggio/dall’altruismo e dalla fantasia” avrebbe cantato De Gregori.

Le start up sono principalmente luoghi di innovazione. Di nuove idee, progetti, prototipi di prodotto, sperimentazioni dal mondo della ricerca e via discorrendo che spesso le imprese esistenti, grandi o medie che siano, ma anche le piccole, non hanno tempo, voglia o convenienza di promuovere.Dunque, è alle metriche dell’innovazione che semmai bisognerebbe guardare. Ad esempio, il totale delle immobilizzazioni immateriali delle start up, riferito sempre al totale delle 13.301 imprese da noi esaminate, registra un valore superiore al miliardo di euro. Dentro le immobilizzazioni immateriali ci sono costi di impianto; spese di ricerca, di sviluppo e di pubblicità; diritti di brevetto industriale e diritti di utilizzazione delle opere dell’ingegno; concessioni, licenze, marchi e similari.

L’innovazione però non produce risultati nell’immediato. Ha bisogno di essere sostenuta, organizzata, condivisa in un ecosistema e soprattutto finanziata. Altrimenti le start up non crescono, anzi muoiono. Dando ragione agli scettici e ai critici che sentenziano spesso così: “ve l’avevo detto”.

*giornalista pubblicista, insegna Principi di Management e Business Model Innovation all’Università degli Studi di CataniaCOPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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