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IL COMMENTO

Compagni di banco, compagni di vita

Di Silvana Grasso |

Gli altri, tutti gli altri, sono solo altri. Solo sagome confuse come alberi guardati da un treno in corsa che non distingue il pino dalla quercia, l’abete dal castagno, il nespolo dal melograno. Sagome senza volto come colline lontane sfocate guardate al tramonto, quando l’ultimo mestruo di sole acceca gli occhi di chi guarda perché lui non vuol morire cedendo alla notte, tiranna e sovrana.

Oltre gli altri, loro, compagni di classe, compagni di banco di cui ho respirato il calore il profumo il sudore la rabbia la paura e il cuore all’impazzata. Compagni che nell’avventura della Vita mi sono accanto sempre, invisibili sentinelle del ricordo, che a volte finge di smemorarsi perché nella solitudine della vita adulta, nell’infedeltà della vita adulta, ricordare è soffrire, squarciare ferite che si pensavano sanate per sempre, mentre invece la carne del cuor sversa la sua copiosa emorragia.

Ci siamo passati la tosse, la varicella, la tonsillite, milioni di batteri che veloci attraversano i nostri corpi come passerotti l’indifeso cielo di primavera.

Fu Cettino il mio compagno di banco all’asilo, dimenticarlo è impossibile, a tre anni il cuore si tatua per sempre e sfida coraggioso le dimenticanze. Dieci mesi più di me, Cettino protesse per due anni il mio piccolo segreto come nessun adulto mai più, in quella età adulta che ci fa adulti infedeli e pavidi. Bevve lui per me quel latte freddo di metà mattina che era il prezzo da pagare per giocare in cortile una mezz’oretta. Beveva il suo, un attimo dopo si scolava il mio, veloce che quasi s’affogava e via insieme di corsa, mano nella mano, in quei pochi metri quadrati dove piantavamo sogni e risa come fossero aiuole fiorite. Quanto pieno d’amore e batteri in quel segreto che è stato, negli anni, legame indissolubile, di quelli che non si promettono in chiesa davanti a un annoiato prete ma in un disadorno asilo delle case popolari, davanti a un quarto di latte freddo, color di cadavere.

Alle medie fu Santa la mia compagna di banco, una ragazzina taciturna obbediente che solo moltissimi anni dopo, per caso incontrata in un triste ufficio comunale dove timbrava certificati, mi confessò che le piacevo più di tutte perché disobbedivo criticavo contestavo sfidavo ed ero coraggiosa come non era lei. In quell’istante i suoi occhi, colore delle castagne marroni, raccontarono il miglior racconto che avessi mai letto. Il cuore raccontava il disìo raccontava un tardivo coraggio raccontava, solo per pochi attimi, poi tornò a timbrare a intervalli perfetti come la sua infelicità.

La vita racconta assai più della pagina, l’infanzia, sotterrata in un corpo adulto e triste, racconta assai più d’un classico della migliore letteratura.

Cettino, Santa e Menuccia, al liceo, sono i miei gemini di cuore, non di carne, la carne ci viene imposta da sconosciuti, che mescolando il loro patrimonio di sangue, chiamiamo genitori. Ma d’altro io scrivo. Ad altro penso. Penso a voi compagni di banco, non mutilati da plexigas non isolati da un metro né da una falange di virologi, mute inconsapevoli vestali della mia esistenza, di quella mia anima inquieta – animula vagula blandula – che vi spaventava e affascinava a un tempo proprio come quella “mamma ddraa” che ognuno di noi da bambino, almeno una volta, avrebbe voluto vedere anche a costo d’esserne divorato senza scampo come assicuravano le nostre madri di carne e gruppi sanguigni.

Non ho mai chiesto nulla a nessuno in tutta la mia vita, ma quando chiesi a Cettino di bere ogni giorno per due anni il mio latte, che aveva addosso il gelo della morte, lui bevve, senza nulla chiedere in cambio, e mi donò una trasfusione d’amore che mi salva ancora dall’azzanno della Vita.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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