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Palermo, si facevano rompere le ossa per incassare i soldi dell’assicurazione

Di Redazione |

PALERMO – Un braccio rotto partiva da 300 euro. Una gamba spezzata da 500. Il tariffario dell’orrore variava a seconda della gravità degli infortuni provocati, con la complicità delle vittime, per simulare incidenti stradali. Una truffa alle assicurazioni andata avanti per anni e che ha fruttato centinaia di migliaia di euro a due bande criminali – con al vertice Michele Caltabellotta, 43 anni, titolare dello studio di infortunistica MC – organizzate di tutto punto. Undici le persone fermate dalla polizia con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla truffa, una è ricercata. In tutto gli indagati dell’operazione «Tatalo» sono 60 tra cui l’infermiera Antonia Conte, 51 anni, e l’avvocato Graziano D’Agostino, 42 anni.

L’inchiesta parte, a gennaio del 2017, dalla morte del tunisino Yacoub Hadri. L’immigrato si era prestato al gioco e si era fatto spezzare tibia e perone, ma poi era morto per un arresto cardiaco seguito alle fratture. Un decesso apparso subito sospetto agli investigatori che incaricarono un esperto di vederci chiaro. Il responso confermò i dubbi: le fratture non erano compatibili con la modalità dell’incidente che, secondo i testimoni, era stato provocato da uno scontro tra un’auto e lo scooter guidato dalla vittima. «Hanno le prove ma… mi hanno fatto vedere la fotografia hanno le prove ma…», diceva uno della banda, Francesco Faija, terrorizzato, avendo capito di essere indagato per la morte di Hadri. Ora è accusato, insieme a due complici, anche di omicidio preterintenzionale. Dopo il decesso i tre contattarono la compagna dell’uomo proponendo, in cambio dell’avvio delle pratiche di risarcimento, il 50% dell’incasso.

Alle vittime le bande promettevano significative quote dei risarcimenti, ma dei soldi garantiti gli invalidi vedevano ben poco. Le persone coinvolte venivano reclutate tra tossicodipendenti, alcolisti o non abbienti. La gestione del sinistro veniva curata dai criminali che dovevano ricostruire la scena del sinistro (a volte piazzando fisicamente i mezzi sui luoghi, a volte attraverso testimoni compiacenti). Ricostruito il falso incidente, le «vittime» venivano portate in luoghi nella disponibilità dei malviventi, per essere affidati alle “cure” dei più violenti e pericolosi che spezzavano loro braccia e gambe.

Per rendere più sopportabile il dolore si davano ai finti incidentati degli anestetici procurati dall’infermiera Conte. I pm, nel provvedimento di fermo, hanno descritto accuratamente quel che avveniva. «Gli arti venivano appoggiati in sospensione tra due blocchi di pietra o cemento e con violenza, sulla parte dell’arto sospesa, veniva gettata una borsa piena di pesi in ghisa o di grosse pietre, in modo da provocare fratture nette, e possibilmente scomposte (perché davano risarcimenti maggiori)». In preda a lancinanti dolori, le vittime venivano trasportate in ospedale e lì entravano in gioco altri membri della banda incaricati di vigilare sui ricoverati per provvedere alle loro necessità, ma soprattutto per evitare denunce.

La gestione delle pratiche veniva assunta dai vertici dell’associazione che curavano la presentazione delle richieste di risarcimento e la successiva suddivisione delle “quote”.

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