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Lavoro in Sicilia, il 2030 l’annus horribilis Un’occupazione solo per 1,2 milioni su 5

Di Mario Barresi |

CATANIA. Chissà se nel 2065 – quando la popolazione siciliana scenderà sotto i quattro milioni, con appena 6 abitanti su 10 in età “produttiva” – riusciremo a battere il record negativo di Mayotte. Ovvero: l’unica regione dell’Europa (un arcipelago, territorio francese, nell’Oceano Indiano) che oggi sta peggio della Sicilia nella classifica dell’occupazione.Il dato l’ha diffuso qualche giorno fa l’Osservatorio dei consulenti del lavoro. Nella classifica del tasso di occupazione nelle 165 regioni dell’area euro, con riferimento alla fascia d’età di 20-64 anni, la Sicilia risulta la penultima, con il 44,1% della popolazione; dopo c’è solo Mayotte, al 40%.

A seguire ci sono Campania (45,3%), Calabria, (45,6%) e Puglia, (49,4%). Ma proviamo ad andare oltre. Perché siamo arrivati a questo punto? E, soprattutto, cosa ci aspetta nel futuro? Il primo dato è demografico. A causa delle evidenti ragioni economiche e sociali la decrescita della popolazione della Sicilia è determinata dall’effetto congiunto di un saldo naturale negativo morti-nascite) e di un saldo migratorio negativo (cancellazioni-iscrizioni), che migliora a partire dal 2037 quando le immigrazioni compenseranno le emigrazioni. Ma spopolamento e desertificazione produttiva – che colpiscono in particolare le aree interne – sono destinati ad avere un trend ancor più drastico. Nell’ultimo Defr (Documento di economia e finanza regionale) presentato dal governo Musumeci sono delle previsioni catastrofiche.

«La popolazione residente della Sicilia si ridurrà già nel 2030 a 4.852.553 abitanti dagli attuali 5.040.488». La composizione per età vedrà diminuire l’incidenza della popolazione 0-14 anni dal 13.9% al 12,6% (-85.536), mentre quella “produttiva” fra 15 e 64 anni, si ridurrà dal 65,3% al 61,5% (-302.350). Gli over 65 saranno, invece, il 25,8% della popolazione, a fronte dell’attuale 20,8% (+203.961). L’età media aumenterà a 46,5 anni (oggi 43,7) e l’Ids (Indice di dipendenza strutturale, rapporto fra la popolazione non in età di lavoro, 0-14 anni più 65 anni e oltre e quella in età di lavoro, 15-64 anni) passerà dal 53% al 61%.

«Se, quindi, 8 siciliani in più degli attuali 53 graveranno economicamente, in termini di servizi di welfare (principalmente per anziani) su 100 in età di lavoro e sui quali graverà l’onere di sostenere i maggiori costi». Nel 2050 si raggiungerà il picco degli anziani (ben più della metà di quella produttiva) e nel 2065 la popolazione scenderà sotto i 4 milioni.E non è tutto. Negli atti predisposti dall’Assessorato all’Economia per il Defr, si leggono altri numeri tutt’altro che rassicuranti. Partendo, ad esempio, dal tasso di occupazione della popolazione in età di lavoro ne 2017 in Sicilia (40,6%), si può stimare che, di questo passo, nel 2030 ci saranno poco meno di 1.213.000 di occupati. E la contrazione del lavoro, incrociata con la tendenza allo spopolamento, porterà l’Idse (persone non in età di lavoro per 100 occupati) a 153,8. Se fra un decennio in Italia questo dato si attesterebbe a 108,8, occorreranno quindi alla Sicilia mezzo milione di nuovi occupati per recuperare il gap.

Ma con quali speranze? Tra i laureati residenti al Sud appena il 47,7% vi lavora dopo aver studiato lì. E ciò vuol dire che la restante parte scappa. Più del 26% dei giovani di questi territori decide di conseguire la laurea in atenei del Centro-Nord; ed il Sud perde oltre il 24 % dei diplomati mentre oltre il 42% dei laureati meridionali , occupati a cinque anni dal conseguimento del titolo, lavora fuori. Nel periodo 2002-2017 il Mezzogiorno ha perduto più di 600mila giovani e la Sicilia oltre 200mila. Questi sono i dati, al netto della retorica sulla “fuga dei cervelli”, di una vera e propria strage di capitale umano.

L’impatto degli stranieri? Purtroppo, al di là della diversificazione delle politiche nazionali, sarà ininfluente. «L’immigrazione dall’estero, senza una strategia, resta poco attratta dalla scarsa dinamica dell’economia siciliana, e produrrà un flusso limitato e soggetto al forte turn-over che caratterizza l’Isola come regione di passaggio». Fra le responsabilità delle classi dirigenti, una – fra le più pesanti – è legata al progressivo “taglio di viveri” da parte del governo nazionale. Questi gli altri spunti che emergono dalla rielaborazione dei dati dell’assessorato all’Economia: «La spesa pubblica consolidata (che effettuano Stato, Regione. Provincia, Comune), nelle autonomie speciali del Nord è superiore alla media nazionale; risulta in linea in Sardegna ed è ridotta del 16% in Sicilia.

Nelle Regioni del Mezzogiorno la spesa in conto capitale si è ridotta di oltre il 40%, contro un incremento per il Centro-Nord del 13%. Ed in Sicilia c’è una contrazione, rispetto alla media del Mezzogiorno, di oltre il 56%». E dire che, tralasciando il gap infrastrutturale il governo nazionale dovrebbe tenere conto di un altro dato: ogni 100 euro investiti nel Sud – secondo il report della Fondazione Banco di Napoli – circa il 50% ritorna nel Nord per la fornitura di beni e servizi, quindi le imprese settentrionali trarrebbero un tangibile beneficio in termini di fatturato diretto dal «piano straordinario di investimenti» annunciato dal premier Giuseppe Conte. Che deve far presto. Perché in Sicilia la decrescita infelice è inarrestabile.

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