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L’ingegnere etneo che ha respirato “polvere di stelle”

Di Maria Ausilia Boemi |

Una vita dedicata alla ricerca scientifica applicata e iniziata alle falde dell’Etna: «Sono nato a Catania – racconta l’ingegnere Chiarenza -. Completato il liceo scientifico al Boggio Lera di Catania, mi sono laureato nei primi anni 70 in Ingegneria elettronica a Bologna con una tesi sui satelliti per telecomunicazioni. Già all’ultimo anno del corso avevo ricevuto proposte di lavoro da industrie italiane. Una situazione comune allora, per gli studenti più dotati, e che oggi purtroppo è una chimera. Scelsi una ditta di Roma, che lavorava nel campo dei radar e dell’elettronica, e che in seguito si fuse con una ditta aerospaziale diventando Alenia e aprendo una divisione spazio per la costruzione di satelliti. Questa ditta aveva contratti dall’Esa per satelliti di ricerca scientifica». Da vice capo-progetto di questi satelliti, l’ingegnere Chiarenza faceva la spola tra Roma e il centro tecnologico dell’Esa, l’Estec (European space technology center), situato a Noordwijk, in Olanda. «Per il mio lavoro mi ero fatto apprezzare e gli ingegneri dell’Estec mi proposero di andare a lavorare con loro. Mi lasciai tentare e mi presero così all’Esa. Lasciai l’Italia nel 1977, per dirigere un progetto internazionale per un satellite geo-stazionario per l’assistenza alla navigazione aerea commerciale. Sfortunatamente, il satellite non fu realizzato e così mi fu proposto di partecipare a un’altra cooperazione internazionale: il Progetto Spacelab». Questo progetto, che consisteva in un laboratorio spaziale, fu ideato dall’Esa come contribuzione europea al programma Shuttle della Nasa: «Io fui mandato, per conto dell’Esa, a seguirne la costruzione a Brema, in Germania».

Lo Spacelab finito fu consegnato alla Nasa e inviato in Florida per essere installato nel primo degli Shuttles, il Columbia: «Quello che poi ha fatto una triste fine, ma che ha avuto il merito di fare tanti voli a scopo scientifico perché, anche quando c’erano gli altri 3 Shuttles, il Columbia era il più adatto per gli esperimenti, avendo interfacce molto ben studiate a quello scopo».

Lo Spacelab fu un grosso successo: il primo fu lanciato nel 1983. «Ricordo l’emozione che provai sulla rampa di lancio – racconta l’ingegnere Chiarenza -, dentro lo Shuttle che conteneva un laboratorio che io conoscevo a memoria e 72 esperimenti diversi – di cui 40 europei da me assemblati e controllati – da fare nello spazio, in orbita a 270 miglia di altezza. Conoscevo il progetto, gli esperimenti, i sei astronauti dell’equipaggio, tra cui il tedesco Ulf Merbold (il primo europeo nello spazio) e questo mi diede modo di entrare nel campo dell’addestramento: quando infatti lo Spacelab fu mandato in Florida, la Nasa ne costruì un simulacro nel Centro di volo spaziale Marshall (Msfc), ad Huntsville, in Alabama, per consentire agli scienziati astronauti di addestrarsi nella esecuzione degli esperimenti che avrebbero poi compiuto nello spazio».

Una volta finito il lavoro ad Huntsville ed essendosi ormai la Nasa impadronita delle funzioni dello Spacelab, l’Esa richiamò l’ingegnere Chiarenza in Europa, in Olanda per la precisione, affinché si occupasse del nuovo progetto della Stazione spaziale internazionale (Iss), per la quale l’Esa doveva realizzare un laboratorio: il modulo Columbus, oggi nello spazio. «Allora era solo un’idea: si doveva stabilire quanto dovesse essere grande, che esperimenti dovesse avere, come si dovevano distribuire dentro la Stazione (dove ci sono altri 5 laboratori). A quel punto, l’Esa decise, come partner ufficiale del programma Iss, di avviare anche un programma di mantenimento e addestramento di un gruppo di astronauti, in modo da gestire indipendentemente dalla Nasa gli astronauti europei scelti per volare nello Shuttle e nella Stazione».

L’Esa cominciò così a reclutare astronauti, fondando anche il primo centro di addestramento astronauti in Europa, chiamato Eac (European Astronaut Center), a Colonia, in Germania. «Mi dissero: “Tu sei quello che in questo campo ha l’esperienza migliore” e mi mandarono all’Eac. Si formò così il primo gruppo di astronauti europei, tra cui c’era anche l’italiano Maurizio Cheli». Già ai primi degli anni 90 la Nasa aveva pienamente riconosciuto il Centro di Colonia e si erano formati gruppi di lavoro per standardizzare l’addestramento: «Io giravo il mondo per coordinare gli sforzi delle Agenzie spaziali partecipanti alla Iss. La maggior parte dell’addestramento degli astronauti, anche di quelli scientifici, avveniva però al Centro spaziale Johnson (Jsc) della Nasa, a Houston, e così da Colonia, sempre per conto dell’Esa, fui mandato lì: fu la prima volta che vissi a Houston. Eravamo nel 1994: fui il primo ad aprire un ufficio di collegamento con la Nasa per quanto riguardava l’addestramento degli astronauti. Assistevamo gli astronauti, tenevamo i collegamenti con i programmi e le missioni della Nasa, discutevamo su quale missione mandarli. Restai come rappresentante degli astronauti europei e del loro addestramento a Houston dal 2000 fino alla fine della mia carriera con l’Esa nel 2012: l’ultima missione che ho seguito è stata la Sts-134, il penultimo volo dello Shuttle, con a bordo l’astronauta italiano Roberto Vittori e 7 esperimenti scientifici italiani molto interessanti».

Una carriera che, singolarmente, è coincisa con i 30 anni di avventura dello Shuttle: «Sono stato così fortunato – sottolinea Chiarenza – da avere seguito il pionierismo di questi due programmi: Shuttle come portatore dello Spacelab e Shuttle al servizio della Iss. C’era uno spirito pionieristico molto forte: una cosa è oggi avere la Stazione lì, bella e funzionante; cosa ben diversa è costruirla componente dopo componente, avere il batticuore, chiedendosi se funzionerà…».

Un’esperienza per la quale l’ingegnere Chiarenza si reputa molto fortunato, consapevole di avere vissuto una avventura unica: «Era un lavoro interessantissimo ed ero estremamente contento di esserci dentro e di contribuire alla sua realizzazione».

Ci tiene, l’ingegnere Chiarenza, a lasciare un messaggio: «Quando vedo una missione spaziale – sottolinea – penso all’astronauta, al pericolo che corre, ma penso sempre che la missione si fa per qualcosa: lo scopo è il progresso umano e soprattutto la scienza. Se non ci fosse la scienza, non ci sarebbe niente».

Una vita professionale che coincide con l’epopea dell’uomo nello spazio: ma qual è il momento più emozionante che l’ingegnere Chiarenza ha vissuto? «Forse, quando sono entrato nello Shuttle già sulla rampa di lancio, per mettere a punto gli esperimenti: vestito tutto di bianco per evitare contaminazioni, mi sono sentito come uno di un altro mondo e ho pensato che quello Shuttle avrebbe volato in orbita. Ma anche i lanci da Cape Kennedy, in Florida: dopo aver seguito gli equipaggi ed averli addestrati, conoscevo i loro punti forti e deboli, mi sentivo così vicino a loro… Era anche sicuramente emozionante quando gli astronauti, soprattutto gli italiani, mi chiamavano al telefono di casa mentre erano in orbita a 400 km di altezza. Infine, anche quando andavo a incontrare gli astronauti al loro ritorno. Ero sotto lo Shuttle quando, dopo l’atterraggio, lo rimorchiavano verso l’aeroporto: si apriva il portellone e scendevano loro un po’ stanchi e insonnoliti…».

In una vita piena di soddisfazioni, vissuta sull’onda dell’entusiasmo cavalcando da Terra le stelle, non ha rimpianti l’ingegnere Chiarenza, anche se non ha avuto modo di volare nello spazio: «Quando l’Esa cominciò a reclutare astronauti europei per creare il primo gruppo da mandare nello Spacelab, presentai domanda. Ma allora, per la prima ondata, cercavano solo scienziati puri. A partire dalla seconda ondata, quella di Maurizio Cheli, hanno cominciato a prendere anche ingegneri e piloti, ma per me era passato il momento giusto».

Stretti sempre i rapporti con la Sicilia: «Vado in Sicilia una o due volte l’anno, mia cognata abita a Siracusa e ho zii e cugini a Catania». Ma di tornare non se ne parla: «L’Italia mi piace molto ma, dopo tanti anni, non è più quella di cui ho ricordi meravigliosi, e tornare con un’altra mentalità mi sembrerebbe strano». E poi a trattenerlo in America c’è il figlio, sposato con un’americana, e due nipotini di meno di un anno.

Alla fine di una carriera così straordinaria, cosa consiglierebbe ai giovani? «Seguire le proprie tendenze, la propria vocazione, cercare di affermarsi nel campo dove ci si sente a proprio agio. Tante volte, soprattutto oggigiorno, si scende a compromessi e, col tempo, poi questo si vede: ho incontrato, specie recentemente, giovani che fanno un certo lavoro giusto perché non hanno altro da fare, si vede chiaramente che non si appassionano, che hanno la testa altrove. Dal mio punto di vista, questo non è bello: ciò che io ho fatto, l’ho fatto per vocazione, perché faceva parte della mia mente. Ecco perché mi divertivo moltissimo e penso che, nello stesso tempo, ero utile alla comunità».

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