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La candidatura di Micciché a presidente della Regione? Ecco il suo vero piano

Il presidente dell’Ars vuole legittimarsi nel partito. E soprattutto rompere la “strategia della camomilla” di Musumeci

Di Mario Barresi |

Gianfranco Miccichè non sarà mai davvero candidato alla presidenza della Regione. E lui lo sa. Non lo vogliono gli alleati: i nemici che lo odiano, ma in fondo anche gli amici che lo riconoscono come fuoriclasse. Non lo vuole metà del suo partito, quella di chi vorrebbe toglierli una leadership che dura incontrastata da un quarto di secolo. E in fondo non vuole farlo nemmeno lui. Né il candidato: su e giù per 391 comuni, a cercare voti nella calura dell’autunno siculo. Né il governatore: troppo faticoso, troppe responsabilità; magari quindici anni fa sì, ma oggi ci vuole un fisico bestiale. Che non c’è più, forse non c'è mai stato.

E allora come la mettiamo con la notizia del giorno? Forza Italia candida ufficialmente il suo leader regionale a governatore. 

Riassumiamo all’osso, per dovere di cronaca, il flusso di notizie ufficiali di un (preannunciato) pomeriggio di passione. La riunione del gruppo regionale di Forza Italia lancia la candidatura di Miccichè. Che l’accoglie, «riservandosi di decidere soltanto dopo aver sentito il presidente Renato Schifani – che con pochi altri era assente alla riunione – e soprattutto il presidente Silvio Berlusconi». In serata il presidente dell’Ars scioglie la riserva:  «Ho sentito Berlusconi certo, non ho sentito ancora Tajani perché aveva impegni: io comunque sono in campo per compattare il centrodestra».

Che è anche una risposta ai nemici interni (la fronda di 9 fra deputati e assessori regionali), subito col freno a mano tirato, invocando scelte «in sintonia con le valutazioni del coordinatore nazionale AntonioTajani e del presidente Silvio Berlusconi», orientate alla «necessità di un centrodestra coeso». E Miccichè li rintuzza anche su questo fronte: «Io comunque sono in campo per compattare il centrodestra. Metto la mia eventuale candidatura a disposizione dei nostri alleati nazionali, Lega e Udc e di tutti gli altri possibili alleati siciliani». Le citazioni non sono casuali.

In mezzo una pandemia di reazioni. Freddina la Lega. «Per quanto ci riguarda, di candidature se ne parlerà al momento opportuno», commenta il segretario Nino Minardo, certo che «la coalizione saprà scegliere il meglio», invitando a «litigare di meno e lavorare di meno». Più calorosa l’accoglienza dei renziani di Sicilia Futura: la discesa in campo del presidente dell’Ars, commenta Nicola D’Agostino, «va incontro alle esigenze di un enorme elettorato moderato» e «apre nuove prospettive politiche al centro, con un occhio al modello Draghi». Soltanto in tarda serata la bocciatura della “cabina di coordinamento di DiventeràBellissima” (e quindi: di Nello Musumeci) per cui la proposta del leader forzista «sembra fuor d’opera», perché «questo non è certo il momento delle alchimie, dei laboratori e nemmeno dei teatrini della politica».

Nella melassa indistinta delle reazioni, passa inosservata la più sottile. Quella degli Autonomisti, che considerano la candidatura di Miccichè «un fattore di chiarezza che consentirà – sostiene Roberto Di Mauro – di avviare un confronto costruttivo tra candidati e programmi nei partiti della coalizione di centrodestra». Ecco, una volta tanto il politichese, nella versione vintage dell’uomo più vicino a Raffaele Lombardo, è la chiave per entrare nella sostanza delle cose. Assieme alla confessione rassegnata da Miccichè ai cronisti dell’Ars, in pieno gongolamento dopo aver ottenuto lo scalpo di Tuccio D’Urso: «A questo punto il centrodestra ha due candidati, io e Musumeci e se ne spunta un terzo poi sarà l’alleanza a decidere cosa fare».

Ecco, il punto è questo. Miccichè non si candida per candidarsi davvero, ma perché questa è la mossa giusta al momento giusto. Reagisce, da animale ferito, alla mozione di sfiducia dei ribelli del suo partito: gli odiati assessori Gaetano Armao e Marco Falcone, ma soprattutto Riccardo Gallo. Il deputato agrigentino, tanto silenzioso quanto potente, uno dei più vicini a Marcello Dell’Utri, pigmalione del giovane Gianfranco manager berlusconiano. Miccichè sa che è arrivato il momento di misurare chi ce l’ha più grossa, l’influenza su Arcore. E, consapevole del rischio che corre, confida che ancora una volta il Cav gli darà ragione, nonostante l’ostilità di Tajani e le perplessità di Licia Ronzulli.

L’altra reazione è da animale politico. La tempesta dopo la quiete. Proprio quando Musumeci instilla dosi di camomilla al centrodestra siciliano, azzerando l’azzeramento in giunta e rinviando a «dopo il 30 aprile» le scelte più decisive, a partire da quella sul suo bis, Miccichè rovescia un silos di caffè nero bollente. E costringe tutti a riaprire, subito, un dibattito che rischiava il silenziatore fino al giorno in cui sarebbe stato troppo tardi per costruire una candidatura alternativa. Il leader forzista alza il prezzo, l’asticella, il livello di scontro. E lo fa con consapevolezza. Con alcune coperture ben precise, fra cui quelle di due dioscuri omonimi. E anche con la complicità della Lega, in sintonia con il viceré berlusconiano di Sicilia sul game over di Musumeci, a prescindere dalla reazione ufficiale. Niente più alibi: ora se ne dovrà parlare, a breve scadenza. Nel partito prima e poi nella coalizione.

Ecco perché  magari Miccichè alla fine non si candiderà. Ma andrà avanti, comunque. Perché lui è avanti. Forse troppo. Come con «il piano B, che è sempre stato il mio piano A» (la maggioranza di Draghi, con FdI fuori) che oggi in Sicilia sembra un’eresia. Tutti ne parlano, nessuno ne vuole parlare. Ma un giorno, chissà. E quel giorno Gianfranco, come per la rielezione "gattopardesca" di Sergio Mattarella, potrà dire: «Ve l'avevo detto, io…».

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