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IL PERSONAGGIO

Catania, Gigi Tropea chiude lo storico negozio: il “The end” di una favola rock

Addio alla boutique nata in via Monfalcone e che poi si è spostata in viale Africa: quei capi unici che hanno vestito generazioni di modaioli e non

Di Francesca Aglieri Rinella |

La faccia e le mani di una persona possono raccontarne la storia personale. Non è solo fisiognomica o (nell’accezione criminogena) cultura lombrosiana, ci piace credere che sia semplicemente la trasposizione di un vissuto che nemmeno tonnellate di botox ben assestate non possono mascherare. Le rughe parlano, raccontano, sussurrano. E sono belle. Come quelle di Gigi Tropea. Una ginepraio di piccole fessure che diventano minuscole su un volto mai cupo, mai arrabbiato.

Già perché lui ride sempre anche quando finisce una storia – la sua – che ha fatto impazzire tutta Catania. Siamo andati a trovarlo in negozio, nella boutique di viale Africa, dove campeggia la scritta “The end” che annuncia la chiusura dell’attività, perché volevamo raccontare la fine di questa bella storia che ha appassionato generazioni di catanesi modaioli e non. Strada facendo, però, ci siamo resi conto che accanto a quelle sei lettere inglesi, probabilmente, Tropea avrebbe dovuto aggiungere un punto interrogativo.

Le rughe di una vita

Siamo entrati in un negozio e abbiamo vissuto – nel suo racconto – un film in cui le rughe di Gigi sono fotogrammi di una vita incredibile. Quasi una fiaba rock che lui sta suonando con quelle mani lunghe e ossute tipiche dei chitarristi belli e dannati della sua generazione. E sarà un segno del destino se proprio lui che per anni ha scimmiottato Mick Jagger, se lo ritrova per le street of love della città?Gigi Tropea si racconta. E si emoziona. «Ho dedicato tutta la mia vita al lavoro che mi ha dato grandi soddisfazioni. Avevo la quinta elementare. Oggi la terza media – non vi dico come l’ho conseguita – ma mi serviva per avere la licenza da commerciante».

«Da sempre innamorato della moda, mi occupavo di altro. Giocavo a fare il garzone in una polleria e a vendere uova, la sera facevo il dj. Ma ero sempre affascinato dalla moda e sbavavo davanti alle vetrine di un negozio. Si chiamava “Top one”, ma io che all’epoca non conoscevo ancora l’inglese lo leggevo “Topone”. I soldi che guadagnavo li spendevo lì, pensando “prima o poi mi apro un negozio…”.E così accadde nel 1981, in via Monfalcone. «Ho intrapreso l’attività di commerciante di abbigliamento, anzi da venditore di pezze: l’idea di avere cose originali per me era vincente. All’inizio mi dicevano “Gigi, questi pantaloni li puoi indossare solo tu”. Ma poi anche gli amici e i clienti si abituavano a quei capi così stravaganti e unici e li acquistavano».

Anche barbone

Una vita tra moda, musica e mondanità. «Ho fatto il dj per vent’anni, ma tutto era studiato: passo musica e faccio divertire la gente per poi farla venire in negozio. Sto in negozio per vendere i dischi ai clienti. Ma c’è dell’altro. Per un anno e mezzo della mia vita ho fatto il barbone. Eravamo barboni, ma ci chiamavamo “così”, “figli dei fiori” perché dormivamo in strada, chiedevamo l’elemosina, tra Roma e Milano. Io stazionavo davanti ai migliori alberghi: su un cartone. Amavo il bello, ero (sono) malato di bello. È servito per il futuro, per il presente. Una sera, la vigilia di Natale, in piazza dei Cinquecento a Roma stavo preparando il mio cartone per dormire, è passato un signore bello, altissimo, capelli bianchi e con un cappotto bianco. Mi ha steso la mano e mi ha dato centomila lire. Io, felice, raggiungo i miei amici e con quei soldi abbiamo festeggiato il nostro Natale. Quella sera stessa ho pensato “Se un giorno avrò qualcosa la dedicherò a quest’uomo”. Così è stato e da qui è nata la tradizione dello scambio degli auguri di Natale in negozio. È stato per decenni un appuntamento fisso per gli amici, i conoscenti e per i catanesi. Adesso mi inventerò qualcos’altro…».

Oggi Gigi ha 70 anni. Il suo negozio chiude, ma lui è pronto a iniziare una nuova avventura. «Se ho fatto la storia di questa città? No, la storia siamo noi… – ride – ma mai avrei immaginato tanto affetto, tanti messaggi di stima da parte della città, degli amici o dei competitor. Mi sento come se – a saracinesca abbassata – mancherà qualcosa a questa città per causa mia. Adesso – dopo Baiamuri – guardo altrove. Nella scatola dei miei desideri potrebbe esserci altro. Anche e di nuovo qui…».

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