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Pizza e impresa

«Ho aperto la prima pizzeria con un piccolo prestito e soli 3 dipendenti, oggi ne ho 50. La Sicilia è la terra che offre più opportunità»: la storia Emanuele Serpa

In meno di 10 anni ha fondato un piccolo impero della pizza gourmet. «La Sicilia? Oggi è terra che offre più opportunità»

Di Carmen Greco |

Emanuele Serpa non è figlio d’arte. Non ha alle spalle ristoranti di famiglia o trattorie storiche da vantare nel curriculum. Oggi a 32 anni è a capo di un piccolo impero, con tre pizzerie gourmet (la “madre” ad Acireale, la “figlia” a Catania, e la futura prossima a Modica) e un ristorante di mare a Santa Maria la Scala nuovo di pacca. Un imprenditore “istintivo” per sua stessa definizione, che nel 2014 studiava Economia a Catania e leggeva il Sole 24 Ore.

«Un giorno, nel 2014, lessi che il 70 per cento degli italiani quando va fuori a cena va a mangiare la pizza. Da lì mi è venuta l’idea: ma perché non facciamo un progetto per la pizza gourmet? Così è nata l’idea di “Frumento”».

Era quello che voleva fare da grande?

«In realtà volevo fare tutt’altro, ma la strada del commercialista non mi entusiasmava più di tanto. Volevo fare il manager in un ente pubblico o in un’azienda privata».

E la ristorazione che c’entra?

«Infatti non era nelle nostre corde, mio padre di origine calabrese e mia mamma catanese, cucinavano entrambi, ma per diletto, in famiglia…».

I primi passi?

«Innanzitutto l’idea di volermi approcciare alla pizza in maniera diversa, non volevo fare Capricciose e Fattoresse classiche. Stava per esplodere la filosofia del biologico, delle materie prime, dei prodotti locali e a quello volevamo legare il progetto della nostra pizza».

Quando parla al plurale a chi si riferisce?

«Alla mia compagna, Federica Lazzaro il progetto nasce con lei. Nel 2014 lavorava in una cioccolateria di Acireale dove aveva già una certa dimestichezza con le materie prime. Oggi è la nostra direttrice di sala».

Dove avete trovato i soldi per iniziare?

«In banca. Grazie al mio commercialista che per me è come se fosse un parente. Mi ha presentato al direttore dell’Istituto di credito con un suo business plan, garantendo per me sulla validità del progetto. È riuscito a farci dare un prestito di 25mila euro, non avevamo nulla da dare in garanzia…».

E da lì è partito tutto…

«Esattamente. Ci siamo barcamenati per aprire alla meno peggio il primo locale, ad Acireale. La sera dell’inaugurazione avevo solo 300 euro nel conto corrente, era il giorno del mio compleanno e in testa avevo solo una domanda “Forse ho fatto una cazzata?”, però ricordo quello come un bel periodo. Per fare l’imprenditore devi avere tanto coraggio ma a un certo punto devi anche buttarti. Secondo me la spensieratezza dei miei 25 anni mi è servita molto, oggi nonostante mi trovi in una situazione di solidità, prima di fare una scelta ci penso più volte».

Oggi tiene famiglia…

«Sì certo, ma allora pensavo che fosse la cosa più naturale del mondo aprire quel posto, senza pensare a fare soldi subito, a quanto avrei potuto incassare…».

Quando ha capito che era sulla strada giusta?

«Dopo pochi mesi, Carnevale 2016. Abbiamo avuto tantissima affluenza e lì ci siamo resi conto che funzionava».

Quante persone ha assunto?

«All’inizio 3, un pizzaiolo, una collaboratrice in cucina, un’amica di che serviva ai tavoli, poi c’eravamo io e Federica. Oggi abbiamo 50 dipendenti e lo sento come una grande responsabilità verso quello che abbiamo fatto e verso quello che faremo. C’è chi lavora con me da tanti anni, ho visto crescere la sua famiglia, comprarsi una casa, avere una vita serena e questo mi fa molto piacere».

Perché Catania come seconda tappa del suo progetto?

«Perché Catania è una città che ci crede poco. Secondo me cerchiamo più l’internazionalizzazione che la valorizzazione della nostra cucina».

Che voto darebbe mediamente alla ristorazione catanese?

«È difficile mangiare male a Catania…».

Diplomazia a parte, la migliore pasta alla Norma?

«Ah, io il mio posto ce l’ho da sempre…».

E qual è?

«La Siciliana».

Beh, un’insegna del 1968…

«Sì, ma è una ristorazione che secondo me è rimasta fedele alla città di Catania. Bisogna puntare sulla tradizione, ma non tanto per dire. Oggi tutti si riempiono la bocca di “tradizione” e “cucina della nonna”, ma Catania la tradizione ce l’ha sotto il naso. Noi essendo figli di tempi diversi, abbiamo dovuto darle una spinta in più, ma usiamo il ragusano Dop sulla pizza e prima non lo faceva nessuno. Chi, oggi, fa una buona salsa di pomodoro, con le melanzane fritte e una buona ricotta salata? Sono cardini della nostra cucina e non “fa figo” non averli nel menu».

Da imprenditore, quali problemi ha incontrato in Sicilia?

«Voglio essere controcorrente. Oggi questa terra offre molte più opportunità che problemi perché in Sicilia hai “spazio”. La Sicilia – è questo il paradosso – grazie al mancato sviluppo degli anni precedenti – tramite l’enogastronomia, la qualità dei prodotti locali, la sua biodiversità, l’agricoltura, offre molte più opportunità che in passato».

Le hanno mai chiesto il pizzo?

«Mai, sono sincero».

Nemmeno indirettamente? “Assumi mio cugino!”.

«No, forse il lavoro di mio padre ha aiutato a tenerli lontano dall’azienda».

Che dritte darebbe a un ragazzo che vuole buttarsi in questo settore?

«Affidarsi a dei bravi professionisti. Un bravo commercialista, un avvocato, un ingegnere, oggi per un’azienda valgono tanto. Io ho seguito tanti consigli, magari anche sbagliando, però parlare con la gente mi è sempre piaciuto e mi ha fatto crescere».

Un domani aprirebbe a Milano?

«Più che a Milano mi piacerebbe all’estero, a Copenaghen, a New York, sono convinto che questi paesi apprezzerebbero la nostra idea di cucina siciliana. Invidio molto quello che hanno fatto a Napoli, sono stati magnifici nell’esportare il prodotto pizza».

Beh, l’hanno inventata loro…

«Sì, ma loro sono stati bravi nel raccontarla, noi ancora litighiamo per come si deve chiamare l’arancino e perdiamo di vista l’obiettivo».

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