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Catania, commemorato Pippo Fava Contestato l’assessore Cantarella

Di Redazione |

Catania. Chissà come l’avrebbe raccontato Pippo Fava – 35 anni dopo essere stato ucciso dalla mafia – questo glaciale 5 gennaio catanese. Con centinaia di cittadini imbacuccati a riscaldare la memoria di un giornalista che si chiedeva, semplicemente, «a che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?».

Chissà come Fava avrebbe descritto la «mattinata popolare», una colazione organizzata da I Siciliani Giovani al “Giardino di Scidà”, bene sottratto ai boss e ora patrimonio della città.

E chissà come avrebbe tinteggiato – nell’era gialloverde, dei porti chiusi alle ong, dei decreti sicurezza contro i diritti dei migranti – il colorato corteo in marcia fin sotto la lapide e la contestazione a un partecipante indesiderato: Fabio Cantarella, dirigente regionale della Lega e assessore a Catania. Attimi di tensione prima della partenza, soltanto dopo l’arrivo della Digos il politico ha potuto, a debita distanza, partecipare alla marcia. «La memoria di Fava non è di destra né di sinistra, ma di chi condivide determinati principi. Sono stato insultato e invitato a lasciare il corteo “perché è di sinistra”. Ho riferito l’accaduto a Claudio Fava, che ha preso le distanze da quanto accaduto». Matteo Iannitti, a nome dei I Siciliani Giovani, fornisce tutt’altra chiave di lettura: «Per il terzo anno consecutivo abbiamo pensato di fare un corteo “politico” che vuole mettere in luce gli affari, le connivenze, le responsabilità politiche che in questa città ci sono e che favoriscono la mafia. In un appello abbiamo scritto chiaramente che non gradivamo in corteo la presenza di assessori. La lapide rappresenta un momento istituzionale, il corteo è politico ed è anche contro questa amministrazione». E infatti nessuna contestazione all’assessore Barbara Mirabella, con la fascia tricolore, presente alla commemorazione ufficiale, che ha donato un violino alla Scuola Malerba, mentre la Fondazione in memoria di Elena Fava ha consegnato una viola a uno studente del Turrisi Colonna.

Chissà come l’avrebbe raccontata, Fava, questa scena. Silenziosa, sobria, emozionante. Sotto la lapide, accanto all’ormai celebre ingresso del sexy-shop (debitamente coperta da fogli di giornale), in un angolo di strada in cui nessuno – fra amministrazione e forze dell’ordine – ha pensato bene di far rimuovere le auto in sosta.

E poi il racconto che ci manca di più. Quello della caduta degli dei dell’antimafia di plastica e dei mascariamenti. Claudio Fava, da presidente della commissione Antimafia dell’Ars, fa il punto sul caso più emblematico: Antonello Montante. Dietro al quale «si è creato un sistema di convivenze, interessi su cui si sono costruite carriere e affari». Con responsabilità trasversali. Anche dei magistrati? Armando Spataro, ex procuratore capo di Torino, non entra nel dettaglio siciliano. Eppure afferma: «Come responsabilità morali inserisco anche il rischio di una modalità di comunicazione che alla lunga colpisce il sistema democratico, anche attraverso una ricerca del consenso eccessivo. Anche con fenomeni eccessivamente teatrali. Il contrasto alla mafia non può essere narrazione di eroismo, questo non fa bene». Ma allora come si può pensare a una “rifondazione” del movimento antimafia più sano e autentico? «Senza autocertificazioni ostentate», dice Fava. Una massima che fa il paio con la rivelazione su un altro dossier dell’Antimafia dell’Ars: i depistaggi su via D’Amelio. Il presidente racconta di aver ricevuto «reazioni nervose da parte anche di associazioni» dopo la presentazione della relazione finale. Lettere-fotocopia, con critiche (giuridicamente) infondate sulla competenza della commissione, un coretto stonato per rivendicare una sorta di «lesa maestà» nell’aver invitato in audizione anche il pm Nino Di Matteo.

Tra le righe del dibattito anche una notizia inedita. La dà don Luigi Ciotti, nell’appassionata difesa di “Libera” come presidio dell’antimafia vera: «Prima che uscisse l’articolo di “Repubblica” avevamo segnalato a Palazzo Chigi (all’epoca c’era Matteo Renzi, ndr) le perplessità sul ruolo di Montante nell’Agenzia dei beni confiscati, ma il governo non ci prese in considerazione». E allora non è un caso che, come ricorda Fava, che «dentro il sistema Montante c’è anche il messaggio devastante nell’aver consentito a chi era accusato di vicinanza alla mafia di gestire i beni confiscati». Così come è più che mai attuale «il pericolo della proposta di Salvini di messa in vendita dei beni». A proposito del ministro dell’Interno, don Ciotti definisce «una vergogna» il «razzismo che viene legittimato tradendo la nostra Costituzione», auspicando «un’insurrezione culturale ed etica». E Spataro, pur non legittimando la disobbedienza civile lanciata da Orlando, dice di «condivere l’appello dei sindaci» e, auspicando che il caso finisca alla Corte costituzionale, chiarisce: «La sicurezza non può essere usata per comprimere diritti. Questa è la vera emergenza, non i migranti».

E poi la premiazione di Giovanni Maria Bellu, «che ha saputo – si legge nella motivazione – fare del mestiere di giornalista una quotidiana risorsa per la ricerca della verità e per il dovere della memoria», vincitore dell’edizione 2019 del premio nazionale “Giuseppe Fava – Niente altro che la verità. Scritture e immagini contro le mafie”. A consegnargli il riconoscimento Maria Teresa Ciancio, presidente della Fondazione.

Un ultimo dubbio. Chissà come, 35 anni dopo l’omicidio, avrebbe commentato l’annuncio del figlio, sul palco, che l’anno prossimo vorrebbe che «si ricordasse Pippo Fava senza Claudio Fava». Il motivo, dopo un mormorio sbigottito in sala, è questo: «Questi eventi devono smettere di essere sfoghi emotivi. I vivi si devono staccare dai morti e lasciarli andare».

Twitter: @MarioBarresiCOPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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