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Allarme biodiversità, così gli avocado sostituiranno le mele dell’Etna

Di Carmen Greco |

«In realtà l’avocado esiste sull’Etna dagli anni Cinquanta – ride il prof. Alberto Continella, ricercatore di Arboricoltura generale e coltivazioni arboree al Dipartimento di Agricoltura dell’Università – e questo perché grazie alla differenza altimetrica che c’è sull’Etna abbiamo la possibilità di trovare dalle piante subtropicali come l’avocado fino alle piante tipiche continentali che sono il melo e il pero, passando per gli agrumi e altre colture di minore impatto come la frutta secca, le nocciole, il pistacchio, le noci, le ciliegie».

Allora tra vent’anni ci saranno sicuramente gli avocado ma non le mele Cola?

«Il rischio c’è. Per questo abbiamo fatto un lavoro di perlustrazione sul territorio ricercando queste vecchie varietà. Siamo partiti dagli studi dei botanici del XVII sec. in particolare dall’Hortus Catholicus di Francesco Cupani e abbiamo visto l’elenco delle varietà di pere, di mele e di ciliegie che erano presenti sull’Etna nel 1696».

E in tre secoli quante varietà abbiamo perso?

«Parecchie. Anche perché c’erano molte omonimie su certe piante e quindi non abbiamo nemmeno certezza sui nomi».

Perché sono andate perse? Non ci si crede, non conviene, sono difficili da coltivare?

«Da un lato c’è la globalizzazione del mercato per cui tutti dobbiamo cercare di uniformare il prodotto quanto più possibile e quindi produrre frutta che abbia una “riconoscibilità”. Se io produco una mela della Val di Non sull’Etna, magari ottenendo un contenuto di polifenoli superiore rispetto alle mele trentine ma quella mela è un po’ più piccola, non è conosciuta, e soprattutto non ha i volumi di produzione per poter penetrare nei mercati, se non quelli contadini della domenica, ecco che nessuno ha interesse a coltivare quelle mele».

Oggi in qualche supermercato si trovano le mele Cola…

«Perché è stato fatto un lavoro importante con l’obiettivo di costruire un consorzio anche se sulla mela – contrariamente a quanto avvenuto per il ciliegio dell’Etna – abbiamo ancora difficoltà nell’aggregare i produttori. Eppure aggregare quelle che sono le produzioni delle diverse tipologie di mele, dalle mela cola, gelato e gelato cola, in modo da poter entrare sul mercato sarebbe importante».

 

E’ una questione di mentalità?

«Anche. Ma molti problemi sono legati alla frammentazione delle aziende che sono piccole, molto spesso di amatori che poi hanno difficoltà a sviluppare la parte più complicata cioè quella commerciale, per questo sarebbe utile un consorzio in cui conferire il prodotto. Tutte queste piccole realtà hanno difficoltà ad avere un canale commerciale unico».

Eppure si parla molto di biodiversità, dagli chef agli agricoltori illuminati…

«La mentalità imprenditoriale non si insegna all’Università e la Sicilia non ha mai spiccato in campo agrario in questo senso. Ci sono singole esperienze molto valide, ma manca una visione complessiva. Noi come facoltà legata al territorio cerchiamo di dare informazioni al territorio, cioè divulgare notizie agli agricoltori e l’aspetto fondamentale è dare informazioni sulle caratteristiche. Per questo lo studio che abbiamo fatto sulla biodiversità delle produzioni frutticole dell’Etna punta a far conoscere non solo le capacità di fruttificazione del prodotto, ma soprattutto le caratteristiche qualitative in senso nutrizionale. La buona alimentazione non ci cura come il farmaco, ma previene l’insorgenza delle malattie. Se riusciamo a comunicare il contenuto nutraceutico (alimento naturale dalle proprietà terapeutiche o preventive ndr) delle mele dell’Etna, questo diventare un canale commerciale importante, così com’è stato per gli antociani nelle arance rosse».

Tra la frutta autoctona dell’Etna qual è quella con più varietà?

«Le pere, abbiamo contato 45 varietà di pere autoctone tutte esclusive dell’Etna e alcune di queste sicuramente hanno una potenzialità commerciale rilevante».

Per esempio?

«Le “perine”, un prodotto esclusivo. che fanno parte anche dell’Atlante nazionale della biodiversità italiana. Poi ci sono piante esemplari unici, per i quali abbiamo fatto un’opera di conservazione e di preservazione nel campo del germoplasma, sull’Etna».

Ma, alla lunga, questo lavoro di ricerca resterà “archeologia agricola” o potrà portare effettivamente ad una rinascita di queste varietà?

«No, non resterà archeologia agricola. Una bellissima misura del piano di sviluppo rurale della Regione Siciliana è stata individuare la figura dell’agricoltore custode, cioè ogni agricoltore può fare la richiesta per impegnarsi a mantenere in vita e coltivare queste piante autoctone siciliane, un lavoro secondo me presiosissimo, intanto perché una volta tanto non siamo solo noi a dover reperire fondi per conservare la biodiversità e poi perché si fa anche un’ azione importante di trasferimento di conoscenze sul territorio, penso alla funzione didattica degli agriturismo».

Secondo lei i piccoli coltivatori dell’Etna hanno la consapevolezza di dover trasmettere questo saper fare?

«Ci sono gli “amatori” che, a volte, sono dei preziosissimi suggeritori perché hanno acquisito sul campo giorno per giorno delle informazioni e, per noi, sono dei veri e propri “basisti” sul territorio. Quando si esce fuori da questo segmento diventa un po’ più complicato anche perché il rinnovamento generazionale non c’è ancora stato. Ci sono giovani appassionati con cui si possono intavolare delle discussioni meravigliose, altri che puntano di più sulla novità e che quindi non credono nella tradizione delle coltivazioni autoctone, però sono entrambe delle scelte che hanno comunque una loro ragion d’essere».

Un borsino della frutta che tra 10-20 anni non ci sarà più?

«Mah, penso al patrimonio fruttifero minore, a partire dalle mele cotogne. Quand’ero piccolo non mi portavo a scuola nessun “tegolino” ma il pane con la cotognata. Più che le specie direi che sono a rischio le varietà. Questa biodiversità che già noi abbiamo trovato erosa del 50% rispetto a ciò che era presente neanche 100 anni fa va scomparendo. Nel caso delle ciliegie, per esempio, in alcuni studi fatti anche negli anni Sessanta-Settanta abbiamo trovato che c’erano una quarantina di vaietà, noi ne abbiamo trovato solo 23».

La più curiosa?

«Ce ne sono alcune rare come la Cirasa bianca che colpisce per il colore ma non solo. La verità è che nessuno ha mai fatto un impianto, un frutteto di Cirasa bianca, eppure la curiosità, potrebbero rappresentare delle potenzialità in più per queste coltivazioni. Voglio dire che dove non si riesce a sfondare per volumi di mercato si potrebbe trasformare la “stranezza” in un fattore attrattivo molto forte, ma spesso non c’è la capacità di reinventare la “comunicazione” del prodotto. Rispondere all’esigenza di noi tutti di voler conoscere “altro” e scoprire che fa parte della nostra tradizione sarebbe la soluzione. Va bene il frutto esotico, ma riuscire a reinterpretare una pera spinella in una nuova ricetta, vale il doppio sul piano culturale perché la tradizione reinterpretata diventa un motivo di interesse in più da parte del consumatore».

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