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Degrado, baby criminalità e imputabilità: la sola repressione non basta

La “riconquista” delle periferie non può essere affidata solo alla repressione e alla riqualificazione urbana dei luoghi: serve un’azione corale “formativa”

Di Sandro Corbino* |

L’avvio di una reazione governativa ai fenomeni di devianza giovanile che da anni avviliscono la vita delle nostre città – in modo speciale in periferie divenute (più che terra di nessuno) spazi esposti ad un controllo sempre più arrogante di gruppi criminali – ha riportato l’attenzione sul problema della responsabilità penale dei minori.Non c’è dubbio che la questione non possa affrontarsi su un piano esclusivamente repressivo.Quella devianza è figlia di costumi. Non nuovi (la criminalità li adotta da sempre) ma che hanno preso il sopravvento, in decenni di sottovalutazione del problema, su quelli che un tempo erano dominanti (nella pratica diffusa) e che facevano da controcanto di una qualche influenza anche dove gli insediamenti malavitosi erano già presenti. Adolescenti non ancora formati provenienti da quegli ambienti degradati registravano – nei luoghi di socializzazione necessitata (come la scuola) o elettiva (come cinema o sale parrocchiali) – che le forme “opportune” (oggetto perciò di generale approvazione) erano spesso diverse – quanto in particolare a modi comunicare e di relazionarsi – da quelle praticati negli ambienti di origine. Il che qualche risultato conseguiva.

In quel tempo non troppo lontano, gli insediamenti familiari seguivano spesso una logica “di quartiere”, ma questo era allora un luogo incluso e non avulso dal tessuto urbano. Non era in grado (tendenzialmente) di assicurare la soddisfazione di ogni necessità. Operare “fuori quartiere” (per giovani in età di formazione) restava un fatto abbastanza ordinario. La “città” e non il “quartiere” (o almeno questo soltanto) era la “comunità” di riferimento. Non era ancora ordinario l’uso di (isolanti) mezzi di trasporto individuali e si utilizzavano perciò servizi pubblici per raggiungere mercati, botteghe specializzate, luoghi di svago e di incontro. Era naturale insomma dover “convivere” (per tempi brevi e meno brevi) con persone di varia condizione e tuttavia di palese comune consuetudine “civile”. Se ne apprendevano i costumi. Spesso “restituendoli” ai propri ambienti di origine.

Nella “città” degli anni Cinquanta/Sessanta del secolo scorso non esistevano quartieri concepiti a tavolino, “città” satelliti nelle quali spingere (e soprattutto “confinare”) molte presenze, già marginali di loro. Si stava solo cominciando ad immaginarli. Come strumento per “risanare” le megalopoli “estraendo” dai loro centri storici i più deboli (anche culturalmente). Spostandoli in nuove periferie “programmate” di tendenziale autosufficienza. Non si voleva, ma si è avviata (con la loro realizzazione) la possibilità per i malintenzionati (che in quelle sacche di debolezza già prosperavano) di sottoporre quei territori “isolati” al loro “governo”, con la “corruzione” di luoghi e persone che oggi osserviamo con sgomento e della quale sono vittime prime le larghe maggioranze di insediati costrette a subire quel dominio.

Mettersi su un nuovo cammino è indispensabile. Ma è anche evidente che non lo si possa fare “annullando” quanto accaduto. Le periferie attuali sono una “realtà” alternativa e complessa. La loro “riqualificazione” non sarà né facile né breve. Forse le nostre “città” dovrebbero divenire federazioni di quartieri specializzati (nelle attività economiche, sociali e sportive), comunicanti perciò per necessità. Non più “periferie”, ma luoghi tra loro complementari. È più probabile che si resti tuttavia sulla strada avviata (più facile) di una “riqualificazione” che non superi la sostanziale condizione di “città satelliti” di quei luoghi. Di certo, l’opera non sarà realizzabile senza una strategia politicamente condivisa e che si dia comunque un orizzonte di decenni. Come ognuno comprende, la “riconquista” richiede un concorso di azioni. Non può essere affidata solo alla repressione e alla riqualificazione urbana dei luoghi. Dovrà accompagnarle l’azione “formativa” di agenzie (come chiesa, scuola, famiglia), che sono a loro volta purtroppo da rivitalizzare (ammesso che lo possano tutte). Mentre alla repressione potranno bastare vigilanza e fermezza “attuali”, alla riqualificazione urbana potrebbero bastare alcuni “anni”, a quella culturale occorreranno “decenni”.

Occuparsi dell’aspetto repressivo (il primo per urgenza e il meno difficile per praticabilità) comporta di dover dare attenzione non solo al “modo” più efficace di provvedervi (difficilmente funzionerà se affidato a strumenti in affanno, come il carcere). Richiede considerazione anche del “da quando” (in relazione a chi lo deve subire) esso possa trovare comunque giustificazione. Aspetto, questo secondo, che apre, nell’immediato, un problema molto difficile. Ma ineludibile. Quello della imputabilità penale dei giovani.La questione è antichissima. Accompagna da sempre ogni ordinamento giuridico, che vi risponde molto variabilmente. Comune e generale è solo la convinzione che non si possano trattare allo stesso modo comportamenti “devianti” di persone di “maturata” condizione psicologica (sono in grado di comprendere le conseguenze del proprio operato) e di persone che quella maturazione non hanno ancora conseguito. Come ognuno però comprende, l’idea di tale “maturata” condizione (che espone alla sanzione) dipende da valutazioni “sociali” rimesse da sempre a criteri empirici (all’id quod plerumque accidit, a ciò che perlopiù accade). Scontano tutti la necessità della insuperabile “approssimazione” di ogni soluzione formale adottata. È di ogni evidenza che essa si scontrerà sempre con evenienze di fatto che la renderanno “discutibile” in relazione al “caso” in discussione.

Se avessimo la possibilità di giovarci di un ordine giudiziario come quello a lungo praticato dai romani, non avrei dubbi nel ritenere che la soluzione preferibile sarebbe la loro. Fissavano anch’essi (almeno da un certo tempo in avanti) una età di riferimento, ma rimettevano al “giudice” la concreta valutazione del caso, consentendo che, in relazione alle circostanze, potesse scendere sotto quel limite. Non abbiamo un ordinamento giudiziario come quello. Ci affidiamo a “forme” rigide (le leggi) e all’“autorità” di giudici professionali. Quello romano guardava con più realismo a forme regolative più flessibili e a giudici “preposti” per l’occasione (con il consenso di coloro che vi erano esposti) e tenuti a giudicare (salvo casi espliciti come quello in discussione) secondo un’interpretazione delle regole non estemporanea ma già consolidata. Forse però anche senza un ordine giudiziario ispirato a quelle logiche (un sogno oggi per gli amanti della democrazia liberale) potrebbe ritenersi ancora preferibile rimettere – con appropriati accorgimenti (composizione collegiale, obbligo di munirsi di pareri qualificati) – al “giudice” (una istituzione di necessità “viva”) e non ad una “forma” (un’età di legge) la “imputabilità” di un giovane.

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*Sandro Corbino, studioso di Diritto Romano, è stato professore ordinario nelle facoltà di Giurisprudenza di Messina, Catanzaro e Catania. Ex componente degli organismi nazionali di valutazione universitaria al il Miur, è stato il primo Difensore Civico di Catania e giudice laico del Consiglio di giustizia amministrativaCOPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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