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Antonino Marco Saitta il fisico messinese che ha espugnato la Sorbona di Parigi

Antonino Marco Saitta il fisico messinese che ha espugnato la Sorbona di Parigi

A 43 anni è vicepreside di una delle facoltà di Fisica più grandi e prestigiose al mondo

Di Maria Ausilia Boemi |

È di Messina, città dove si è laureato in Fisica: a soli 43 anni oggi è professore ordinario di Fisica computazionale e, da un anno e mezzo, vicepreside della facoltà di Fisica della Sorbona di Parigi (facoltà che, con i suoi 250 professori, 300 ricercatori Cnrf, circa 450 tecnici, amministrativi e 2.000 studenti, è una delle più grandi e prestigiose al mondo). Una carriera fulminante quella di Antonino Marco Saitta, impensabile in Italia, specie per una persona senza agganci e conoscenze, ma “armata” solo di curriculum ed esami brillantemente superati. Un cervello in fuga ma volontariamente, come tiene a sottolineare, assurto recentemente, col collega e amico Franz Saija, del Cnr di Messina, alla ribalta scientifica mondiale per avere riprodotto al computer il cosiddetto esperimento di Miller.

«Mi sono laureato a Messina nel 1994 – racconta -. Tengo a sottolineare che sono molto contento dei miei studi messinesi. Sono andato via di mia sponte, senza che nessuno mi dicesse che non c’era posto per me. Nel 1994 sono andato a fare per 3 anni il dottorato alla Sissa di Trieste. Preso il dottorato nel 1997, sono andato 3 anni a fare il post dottorato a Filadelfia, negli Usa. Nel 2000 ho saputo che c’era un posto di ricercatore in Francia. Non conoscevo nessuno e nessuno mi conosceva: questo in Italia può sembrare fantascienza, ma ho depositato un curriculum, ho partecipato a un concorso in francese – ed è stata questa la difficoltà maggiore – e l’ho vinto. Senza che nessuno mi conoscesse né avesse mai sentito parlare di me, se non sulla base del mio curriculum. Sono qui da 14 anni, prima come ricercatore (ma qui, a differenza dell’Italia, i ricercatori hanno un carico di insegnamento molto importante) e 3 anni fa sono diventato professore associato vincendo un concorso. Quest’anno, infine, sono diventato ordinario. Diciamo che io insegno Fisica in francese da 14 anni, da 3 anni col titolo di professore, e da due mesi col titolo di professore di prima classe, che è l’equivalente dell’ordinario».

Ci tiene a precisare che la sua, però, non è stata una fuga di cervello, «nel senso che io ho avuto un docente a Messina, il prof. Paolo Giaquinta, molto aperto verso il mondo: è stato lui a spingermi a non fare il dottorato a Messina ma a tentare alla Sissa, dove c’è un concorso molto selettivo. Non mi sono mai scontrato con l’Italia: l’unica volta è stata nel 2006 quando, per motivi familiari, ho provato dei concorsi per associato in varie sedi in Italia, ma senza successo». In realtà, però, quello che maggiormente stupisce il prof. Saitta non è tanto la carriera accademica fulminante, quanto il fatto di essere diventato vicepreside: «Ero uno dei più giovani professori (due anni fa ero stato nominato professore da appena un anno), ho messo su una lista con docenti giovani che ha vinto le elezioni: tra i votanti c’erano premi Nobel e studiosi di calibro mondiale di una certa età, che non hanno trovato nulla di strano nel fatto che questa lista fosse capeggiata da uno dei più giovani docenti e per giunta italiano».

Questo, secondo il prof. Saitta, dà maggiormente il senso di una mentalità diversa tra Italia e Francia: «Premesso che nessun posto è un paradiso, le persone più dinamiche qui sono apprezzate. La mia storia dimostra che, senza alcuna spinta, ma soltanto con la propria forza di volontà e capacità, si può riuscire». In Italia, un posto simile è la Sissa di Trieste, «un faro di eccellenza internazionale. Non per nulla qui da noi a Parigi ci sono almeno 6 o 7 italiani usciti dalla Sissa di Trieste». Diversi italiani, ma nessun altro siciliano.

E qui il prof. Saitta tocca l’altra faccia della medaglia: «Da un lato in Italia c’è indubbiamente un problema di sistema, ma dall’altro c’è da dire che, anche se io adoro Messina e la Sicilia, non sono uno che non riesce a vivere se non è sul bordo del mare o se non mangia la pasta alla norma. Ho sempre avuto voglia di conoscere altri posti. Molti miei colleghi in gamba facevano invece il concorso ma poi si scoraggiavano, perché Trieste è lontana, c’è la bora, fa freddo e finivano col tornare a Messina. È successo: c’è gente che ha vinto il posto alla Fissa e poi è tornata indietro. Alla fine ognuno fa la sua scelta, ma non si può dare la colpa solo al sistema: se uno non vuole giocare nel cortile dei grandi, non lo fa. Se vuoi sentirti grande, devi giocare nel cortile dei grandi, non in quello dei bambini». L’amara constatazione è però sempre la stessa, che si tratti di cervello in fuga volontaria o meno: «Sono stato formato in Italia, sono costato moltissimo al contribuente italiano per la mia formazione tra laurea e dottorato e alla fine è la Francia che ne beneficia. Non c’è dubbio». E l’amarezza aumenta di fronte alla constatazione che, in seguito al risalto mondiale dell’ultimo risultato ottenuto col collega del Cnr di Messina, Franz Saija, «l’università di Messina che comunque mi ha formato, non mi ha neanche telefonato, a differenza di tanti altri atenei, per invitarmi a fare un seminario e beneficiare della risonanza mediatica». Inutile chiedere se il prof. Saitta pensa di tornare in Sicilia, vacanze a parte: «Ovviamente no, ma non per disprezzo: la facoltà di Messina è un posto comunque piccolo rispetto alla Sorbona. Poi ho tre figli – di 11, 9 e 3 anni – nati e cresciuti qui e anche mia moglie, biologa romana che si è reinventata qui decoratrice d’interni, non tornerebbe in Italia se non per le vacanze. Non tornerei per un posto, ma se qualcuno mi proponesse di fare un po’ di pubblicità per Messina e la Sicilia, di spendere il mio nome in questo senso, sarei molto orgoglioso di farlo. Ma nessuno me lo ha proposto».

Al di là del problema dei fondi alla ricerca, non ha dunque dubbi il prof. Saitta sul fatto che la maggiore differenza tra Italia e Francia sia «nella mentalità. Qui in Francia ci si lamenta moltissimo, a giusto titolo, della riduzione dei fondi alla ricerca, ma parliamo di un confronto che resta comunque impietoso per l’Italia: qui stiamo cominciando a stringere la cinghia su cose su cui in Italia la cinghia si è già stretta da almeno 10 anni. Detto ciò, anche la Francia, come l’Italia, è un Paese latino che pensa che la cultura sia soprattutto letteraria e umanistica e che lascia quella scientifica un po’ in secondo piano. Però la Francia tiene molto al suo ruolo di eccellenza mondiale in tutti i campi. Quindi, per la Francia potersi gloriare di premi Nobel o della qualità della sua ricerca è un vanto nazionale, in Italia si ha sempre la sensazione che non freghi niente a nessuno». E i contraccolpi per l’Italia si vedono, «tanto è vero che, solo nel mio laboratorio (non nella facoltà), su 90 ricercatori e docenti permanenti, gli italiani fissi siamo non meno di una dozzina, forse 15». E le cose peggiorano sempre più per il Belpaese: «Abbiamo assunto da poco nel mio gruppo un ricercatore italiano molto bravo: al concorso all’orale c’erano 6 candidati. Sa quanti erano gli italiani? Cinque». A dimostrazione che la fuga dei cervelli c’è, “eccome. E vanno anche aumentando: siamo arrivati al limite in cui più della metà dei candidati ai concorsi francesi sono italiani». Ma cosa si dovrebbe fare in Italia per porre rimedio alla fuga di cervelli? «Fare pagare le tasse agli evasori e finanziare la ricerca e la scuola, che restano la ricchezza di una nazione come l’Italia che non ha materie prime. Hanno dato per decenni soldi alla Fiat che è fuggita in America. Da qualche parte i soldi li hanno presi, togliendoli alla scuola e alla formazione dei giovani. E per rimediare a questo danno, ammesso che ci sia la volontà di farlo, ci vorranno generazioni».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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