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il colloquio

Il boss Antonio Aparo: «Io, salvato dal ricamo ho abbracciato il killer che ha ucciso mio fratello»

Parla dal carcere di Opera il capo del clan condannato all’ergastolo per associazione mafiosa e omicidio in carcere da ormai 33 anni

Di Francesco Nania |

«Chiedo scusa e perdono a tutti». Antonio Aparo, da oltre un trentennio detenuto in carcere per essere stato a capo dell’omonimo gruppo mafioso, che operava nel territorio di Solarino e Floridia, ribadisce quanto due anni fa ha scritto all’allora sindaco.Aparo – condannato per associazione mafiosa, omicidi ed estorsioni – parla in quest’intervista, della lunga detenzione, della rieducazione ma, soprattutto, della sua resipiscenza.

Due anni fa, scrivendo al sindaco di Solarino, ha detto che “se qualcuno si dovesse presentare a voi facendo il mio nome vi prego, denunciateli subito senza indugiare, perché quella persona è un vigliacco e un perdente come lo sono stato io”. Oggi si sente di ribadire questo concetto?

«Non solo lo ribadisco ma ne faccio un pilastro della mia vita. Denunciare è un atto civile e chi si nasconde dietro alla violenza è un uomo fallito. L’uomo che si nasconde dietro a un altro non è uomo: fare prepotenza nei riguardi di una vittima a nome di un altro è un doppio fallimento».

In quella lettera lei ha scritto: “Chiedo scusa a ogni familiare al quale ho causato tanto dolore, provo vergogna del mio passato”…

«Durante il processo avviene una presa di coscienza del danno causato alle famiglie delle vittime. Non posso restituire il danno arrecato e nemmeno la vita a chi di questa l’ho privata. Spero, un giorno, di poter restituire tutto quanto sia nelle mie forze. Nel frattempo, sto restituendo alla comunità la mia vita anche se questa è poca cosa per il male che ho fatto. Chiedo scusa e perdono a tutti».

Lei è stato arrestato il 5 luglio 1990. Come descriverebbe questi lunghi anni di detenzione?

«Sono detenuto da 33 anni e mezzo di cui fino al 2017 al 41 bis. Provo a descriverli: vuoti, desolanti, privi di senso ed evanescenti. T’impediscono di crescere e pensare. Il modo di come sei trattato, trasforma la persona che subisce quel trattamento cattivo e rancoroso».

Durante questi anni di detenzione in carcere ha studiato e imparato a ricamare.

«Io credo che ogni persona possa redimersi e cambiare idea ma ciò può avvenire in questi luoghi attraverso gli studi o l’impiego del tempo vuoto. Ricamare per me significa rigenerarsi. Mentre ricamo mi sento vivo, sviluppo il senso del tatto, della vista dell’udito. L’udito mi serve per sentire frusciare i fili che scorrono velocemente tra i polpastrelli delle dita. E’ una gioia vedere una tela informe che, dopo pochi attimi, si riempie di colori, figure, ritratti».

Lei crede alla finalità rieducativa della privazione della libertà personale?

«Credo nella finalità rieducativa; i pochi operatori che ci sono, purtroppo, fanno un lavoro immane quasi come un Sisifo. La rieducazione avviene anche con i volontari. Il recluso ha bisogno di confrontarsi giornalmente con persone che ti restituiscono speranza, che ti facciano interrogare sul perché ci si trovi rinchiuso in carcere».

Lei ha incontrato in carcere uno dei killer di suo fratello. Che cosa ha provato?

«Quando ho incontrato il killer di mio fratello, è successo quello che credevo imponderabile. E’ svanito l’odio. Quell’odio che mi aveva tenuto per ventisette anni al 41 bis. In un secondo mi è passato nella mente la mia vita. Mi sono trovato di fronte a una persona sofferente, tremante, che non poteva difendersi. L’ho abbracciato e ci siamo salutati. Adesso, siamo detenuti assieme, qui in Opera».

Abbiamo ascoltato alcuni suoi interventi in convegni, battersi per i diritti dei detenuti.

«Da cinque anni faccio parte del comitato “Nessuno tocchi Caino” e mensilmente mi occupo del laboratorio Spes contra spem. Non è che mi batta per i diritti dei detenuti, mi batto per i miei diritti perché non devo dimenticare chi sia e che sia detenuto. I diritti meno rispettati sono di carattere familiare e del trattamento umanizzante, vedi affollamento».

Che differenza c’è tra pentimento e riconoscere i propri sbagli?

«C’è una grande differenza: il pentimento che intendo io, è resipiscenza personale, riconoscere i propri sbagli. Non posso essere io a toccare la coscienza di un’altra persona che abbia errato. Io non posso né voglio giudicare alcuno, né voglio scagliare pietre contro altri. Ho i miei peccati e mi bastano. Il pentimento come collaborazione con la Giustizia non è da me condiviso perché applicato indiscriminatamente ed è qualificato come un do ut des».

A luglio, la Corte di Appello di Catania ha confermato la sua assoluzione per l’operazione San Paolo. Che cosa significa per lei questa sentenza?

«A me restituisce speranza e fiducia nella giustizia ma soprattutto che sono oggi sulla strada retta».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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