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La deflazione minaccia l’euro

La deflazione minaccia l’euro

Di Enrico Cisnetto |

Una foglia gialla che non fa autunno. Lascia le cose come stanno il rimbalzino di ottobre dell’inflazione, che è tornata finalmente a crescere dopo 5 mesi di continui ribassi. Un decimo di punto in più dei prezzi al consumo (due per i beni alimentari), che porta il tasso di inflazione acquisita per il 2014 dallo 0,2% di settembre allo 0,3% non cambia la tendenza deflattiva in atto. Anche perché l’aumento non è dovuto alle dinamiche del mercato – i consumi continuano ad essere inchiodati – ma alle scelte del regolatore dei prezzi dell’energia. E comunque non colma il nostro gap con l’Europa, visto che la media dell’eurosistema è dello 0,4% (l’inflazione è sotto l’1% in 15 paesi su 18, e di questi in 5 è negativa) e il tasso della Germania è allo 0,8% (paradossale, visto che i tedeschi sono ossessionati dall’idea che i prezzi esplodano). In tutti i casi, non c’è paese dell’eurozona che si avvicini al target Bce del 2% (o poco sotto). Target che non sarà raggiunto, stando alle aspettative, neppure nell’arco di 5–10 anni (Bankitalia dixit). Ma perché, ci si domanda, tutta la liquidità immessa da Draghi nel sistema non produce un briciolo di inflazione come sarebbe logico aspettarsi? Perché i tassi a zero (o poco più) non inducono i consumatori a spendere e gli operatori a investire? Semplice: non è la politica monetaria ad essere sbagliata, ma la condizione complessiva dell’area euro. Il riequilibrio delle bilance dei pagamenti – obiettivo indispensabile, va detto, per evitare una crisi da debito estero come quella che si era profilata nell’autunno del 2011 – è stato ottenuto con politiche recessive, che hanno prodotto disoccupazione, e contenitive dei salari, e questo ha bloccato la domanda interna su livelli molto più bassi rispetto agli anni precrisi, cosa questa che a sua volta ha alimentato la spirale negativa degli investimenti. Dunque non è un problema di liquidità, di quantità di credito (le erogazioni di mutui nel 2014 sono cresciute del 29%, a settembre i prestiti ammontavano a 1.819 miliardi, contro i 1.673 del 2007) o di costo del denaro. Draghi può – e deve – continuare a lavorare al suo piano, per cui dopo gli acquisti delle obbligazioni garantite, andato a regime, adesso partono quelli degli Abs. Ma non basta. E forse non basterebbe neppure se dovesse partire – cosa ancora remota, comunque – il tanto evocato quantitative easing, cioè massicci acquisti di titoli di Stato (e altro). Da sola la Bce non può colmare il vuoto creato tanto dalle scelte sbagliate e limitate dell’eurosistema, quanto dalle mancate riforme nazionali di alcuni paesi. E in palio non c’è soltanto la lotta alla deflazione, pur importante perché è la premessa per uscire definitivamente dalla recessione o anche solo dalla stagnazione, ma la sopravvivenza della stessa moneta unica. Visto che i mercati hanno ben capito che la divaricazione tra le diverse politiche economiche – perfettamente comprensibile se vista in chiave di interessi nazionali, del tutto legittimi in mancanza di un soggetto unitario chiamato Stati Uniti d’Europa, ma deleteria per l’euro – non può non offrire alla speculazione finanziaria l’ennesima occasione d’oro. Non è un caso, infatti, che in questi ultimi giorni si sia prepotentemente riaffacciata nel dibattito pubblico l’idea di un euro–marco (per Germania e paesi del Nord) e di un euro di serie B per i paesi mediterranei. E l’Italia è la prima destinata alla serie cadetta.

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