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«Tartufo per valorizzare il territorio»

Di Carmen Greco |

La storia di Capizzi e del tartufo è recente. «Fino al 2013 non avevo idea che esistesse il tartufo a Capizzi – racconta Purrazzo -: me lo disse un mio concittadino che lo aveva trovato e fatto certificare da un micologo, il prof. Giovanni Di Bella. Abbiamo cominciato venderlo un anno dopo, ma come elemento per aromatizzare la salsiccia secca, in seno alla sagra sui sapori d’autunno che facciamo ogni anno, non come prodotto a sé. Questo è accaduto soltanto l’anno dopo».

E quindi?

«È stato il momento in cui mi sono posto il problema dell’origine. Come facciamo a capire che il tartufo venduto in quel bar o il quel ristorante non venga dalla Romania o dalla Croazia? A me interessa pubblicizzare il territorio, ma anche che il consumatore non vada incontro a fregature. Così mi sono rivolto al prof. Di Bella».

E cosa le ha detto?

«Che scientificamente il tartufo che cresce a Capizzi non è diverso da quello che arriva dall’Est e, quindi, non abbiamo la possibilità di certificarne la provenienza: dobbiamo fidarci dell’autocertificazione che fa il cavatore, così come avviene per i funghi. Se il cavatore è in malafede, purtroppo non abbiamo strumenti per impedirlo, anche perché dobbiamo fare i conti con un vuoto legislativo».

Chi dovrebbe certificare che i tartufi sono autoctoni?

«Questa è proprio la prima questione: chi? Noi abbiamo sollecitato l’ispettorato micologico di Enna (Capizzi, pur essendo in provincia di Messina, fa capo ad Enna come Asp, ndr) e nel 2014-2015 abbiamo avuto la presenza di un ispettore micologo all’interno della nostra manifestazione. Ma questo, quando il cavatore si presenta. Se il produttore si procura il tartufo altrove e se lo fa certificare come proveniente dai Nebrodi, noi non possiamo controllarlo. Ci vorrebbe una cooperazione, che purtroppo oggi manca, tra forze dell’ordine e Asp».

Da sei mesi siete l’unico Comune siciliano a far parte dell’Associazione nazionale città del tartufo. Da ultimo arrivato cos’ha imparato?

«Che la nostra cultura sul tartufo è agli albori».

Per esempio?

«C’è il problema della fatturazione: c’è chi spinge per fatturare il tartufo, che è un tubero, alla stregua delle patate al 4% e c’è chi, invece, vuole fatturarlo come prodotto di lusso, al 22%. Anche su questo, purtroppo non c’è chiarezza».

Lei come la vede?

«Per me è un bene di lusso».

Proposte?

«Introdurrei un albo dei cavatori, il tesserino, un tetto massimo per la raccolta e l’ autocertificazione del produttore-trasformatore. Quando era assessore Cartabellotta avevamo sollecitato il governo regionale su un progetto di legge che puntava alla regolamentazione del settore, ma la proposta è rimasta a dormire in un cassetto».

Quindi non c’è soluzione?

«Fare controlli incrociati tra chi lo vende e chi lo commercializza e obbligare i trasformatori del prodotto (ristoratore o produttore di lavorati) ad auto-dichiarare sia al fisco che all’autorità sanitaria che il tartufo mi è stato dato dal sig. X per la quantità Y. Se poi ho una produzione tale che non corrisponde alla quantità di tartufo dichiarata, vuol dire che c’è qualcosa che non va. In questo modo responsabilizzeremmo chi lo offre ai consumatori e faremmo emergere le responsabilità penali di chi, a questo punto, compie un reato di frode in commercio. Dobbiamo cercare di isolare chi cerca di truffare su questo fronte, a partire da coloro che vendono a prezzi esagerati, anche se, poi, la legge del mercato è quella che è. Se uno è disposto a comprare una “pallina” di tartufo a 100 euro invece che a 30 senza battere ciglio, c’è poco da fare. Per come la vedo io, il tartufo non dev’essere un prodotto commerciale fine a se stesso, ma un prodotto attorno al quale valorizzare tutte le nostre eccellenze locali. Dobbiamo creare una cultura del tartufo a tutto tondo. Non mi interessa che il tartufo sia la “pepita d’oro” attorno alla quale si crea un Far West d’interessi».

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