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Cannoli e pistole, così il clan catanese dei Fragalà ha messo le mani su Roma Sud

Di Redazione |

CATANIA – Cannoli e pistole. Così il clan catanese dei Fragalà, affiliato anche lui alla famiglia etnea dei Santapaola, aveva messo le mani sul litorale romano. Ardea, Pomezia, Ostia, Torvajanica, tutta la zona sud di Roma era controllata da loro. «Qua se c’è qualcuno che comanda sono i Fragalà e basta» dice in una intercettazione uno degli arrestati nell’operazione Equilibri dei carabinieri del Ros che oggi ha assicurato alla giustizia 31 persone tra Roma e Catania.

L’organizzazione si era insediata nella zona oltre  trent’anni fa, la famiglia Fragalà da tempo gestiva una famosa pasticceria a Pomezia, si era infiltrata nel tessuto economico della città e poi aveva cominciato ad esercitare il suo potere con intimidazioni, estorsioni, attentati, omicidi. Da qui cannoli e pistole. Bastone e carota. Con la certezza che se si sta sulla costa di Roma non si possa essere accusati di mafia: «Lì è più facile stabilirsi come cosca, c’è meno rischio che ti riconoscano l’associazione mafiosa» è scritto in un’altra intercettazione. Insomma il litorale romano era vista come una specie di “zona franca” per concludere affari illeciti, rifugiarsi da latitanti, uccidere chi sgarra.  

Secondo le indagini ai vertici dell’organizzazione c’erano Alessandro Fragalà, di 61 anni, il nipote Salvatore di 41 anni, e Santo D’Agata 61 anni, che sarebbero stati in costante contatto con gli ambienti mafiosi catanesi sia per la gestione dei traffici illeciti sia per reclutare manodopera criminale per lo svolgimento dell’attività delittuosa nel Lazio.

L’esportazione di mafiosi

Secondo quanto ricostruito nelle indagini, è Gaetano Loria, (soprannominato ‘u sicilianu), personaggio di spicco del clan catanese dei Carcagnusi a spedire a cavallo tra gli Anni ’80 e 90′ i parenti da Catania a Roma. La famiglia mafiosa gli trova alloggio in una graziosa palazzina a Nuova Florida, quartiere di Ardea a due passi da Torvaianica. E qui il clan comincia a proliferare. Dapprima stringendo accordi con i siciliani, tra cui Francesco D’Agati, padrino di Villabate (nel Palermitano) e anziano amico di Pippo Calò, finito oggi in manette. Poi con le cosche della ‘ndrangheta, della camorra, tra cui i Senese (che controllano il traffico di droga nella Capitale) e della Capitale, tra cui i Casamonica.

«Nella Capitale esiste un tavolo permanente tra le mafie, dove si siedono e si incontrano gli appartenenti di mafie diverse. Si tratta di un livello di aggregazione che non esiste in nessun’altra parte d’Italia» ha detto il tenente colonnello anticrimine del Ros di Roma, Giovanni Sozzo, a margine della conferenza stampa sui 31 arresti.

Il pentito

Ad aiutare carabinieri e inquirenti della Dda di Roma a ricostruire le dinamiche del clan Fragalà sono state soprattutto le parole di un membro della famiglia, Sante Fragalà, divenuto collaboratore di giustizia: è stato lui, fra l’altro, a raccontare vari episodi di estorsioni e spaccio di droga. I siciliani, come già emerso in passato, sono stati egemoni tra gli anni ’80 e ’90 nella zona di Ostia e Torvajanica. Sante Fragalà però ha rivelato fra l’altro come nel 2009 il clan avesse deciso di riprendersi il controllo del territorio fra Ardea e Pomezia in vista della scarcerazione di Alessandro e Salvatore Fragalà.

Il rapimento

A Torvaianica la famiglia Fragalà è conosciuta. Astrid Fragalà è stata anche presidente della Confcommercio di Potenza: da oggi è ai domiciliari. Il padre di Sante, Ignazio, è titolare di una pasticceria nel centro di Pomezia: cannoli, cassate e paste di mandorla arrivavano direttamente dalla sua Catania. Così come da Catania un giorno sono arrivati in otto per rapirlo. Erano 8 esponenti dei clan Cappello e Carateddi. Entrano nella pasticceria e gli dicono: «To figghiu ni futtiu centotrentamila euro». Quindi lo legano e caricano a forza su un’auto per portarlo in Sicilia. Il viaggio all’iniziio fila liscio, il gruppo percorre la Salerno-Reggio Calabria ma quando arriva al traghetto spuntano i carabinieri: «Sono stato rapito» dice subito Ignazio Fragalà ai militari. Poi ritratterà. I catanesi del clan Cappello-Carateddi volevano riavere centomila euro prestati al figlio Salvatore, uno che secondo le carte aveva preso a calci e pugni un imprenditore libanese minacciandolo: «Sono delinquente nato, io faccio parte della prima famiglia catanese. Se non mi fai trovare i soldi ti sparo a te e alla tua famiglia».

Anche Salvatore Fragalà ha un lungo curriculum criminale. A 17 anni ha ucciso un coetaneo con un fucile da caccia perché si diceva che fosse un confidente della polizia. Poi, una “carriera” vita tra violenze, intimidazioni, attentati ed estorsioni.

Le intercettazioni

In una intercettazione ambientale, che risale al 5 febbraio del 2016, Ignazio Fragalà: «A Torvajanica abbiamo sempre comandato noi». In base a quanto scrive il gip Corrado Cappiello, il gruppo criminale puntava al controllo dell’attività commerciale sul territorio pontino al punto da mettere in atto intimidazioni nei confronti dei proprietari di una pasticceria che stava per aprire a Torvajanica nonostante che questi ultimi, secondo l’impianto accusatorio, avessero a loro volta contatti con la ‘ndrangheta. Ma per i Fraglà quella era concorrenza sleale. In un’altra intercettazione Santo D’Agata, esponente dei Fragalà, si rivolge a Leonardo Guiderdone. «Ti do un consiglio e cerca di ascoltare, non aprire la pasticceria! E’ meglio per te. Tu hai voluto scavalcare Ignazio. O ci dai le chiavi oppure puoi aprire però sappi che all’indomani in poi tutto quello che ti succede siamo noialtri. Io ti sto solo dando un consiglio, poi decidi tu quello che vuoi fare».

A conferma di quanto fosse potente la famiglia Fragalà, ci sono anche le tante telefonate che Ignazio e Alessandro ricevevano da Sante Fragalà quando questi non si era ancora pentito e si trovava nel carcere di Rebibbia a Roma. Non aveva problemi a comunciare con l’esterno: impartiva ordini, si riforniva di cocaina e continuava a occuparsi degli affari di famiglia mentre scontava la condanna a 26 anni per duplice omicidio.  Sante ha nella sua disponibilità diverse  schede telefoniche intestate a detenuti stranieri. Quando doveva far entrare la cocaina per lui in carcere si rivolveva alla sorella Mariangela e le indicava come fare: «Mi raccomando intra u pacchiu», che in dialetto vuol dire “nei genitali”.  La sorella eseguiva, ma un giorno è stata arrestata anche lei.

I rituali mafiosi

La ferocia del clan è invece  ben rappresentata dalle parole di Alessandro Fragalà intercettate dai carabinieri del Ros nel 2015 e citate nell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Roma: «Io quando mi sento tradito da qualcuno, che potrebbe anche essere mio padre o mio figlio, io gli sparo. Dice “che ammazzeresti tuo figlio?”, “sì, sì, perchè no? Se mio figlio cammina con me e facciamo il reato insieme e mi tradisce, io lo ammazzo”».

Tra l’altro, come conferma il rituale di affiliazione rinvenuto dai carabinieri durante l’operazione Equlibri, si capisce come i Fragalà non avessero perso le abitudini e i rituali della mafia tradizionale. Tanto che ormai faceva parte dell’organizzazione l’ex capo mandamento di Villabate Francesco D’Agati (anche lui arrestato oggi): «U’ zio Ciccio è un pezzo grosso; è reggente di Palermo, dei mafiosi è lui qua il reggente, lo Zio Ciccio è quello oggi che rappresenta la mafia in tutta Roma» dicono due membri del clan Fragalà in un’intercettazione del 2014 riferendosi  D’Agati. 

«Un’inchiesta durata due anni, partita con Giuseppe Pignatone, e che ha portato alla luce – ha detto il procuratore facente funzioni di Roma, Michele Prestipino – una famiglia mafiosa a tutto tondo. Nell’esercizio di queste attività il clan di origine catanese si è “federato” con altri gruppi criminali, in particolare con uomini vicini ai Casalesi con cui hanno dato vita a un cartello mafioso. Nel tempo abbiamo colto, infatti, rapporti con i Fasciani di Ostia e con i gruppi napoletani dei Senese».

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