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Dacia Maraini, il racconto della guerra vissuta da bambina: «Mangiavo formiche per sopportare i crampi»

In "Vita mia", la scrittrice rievoca il periodo della prigionia con la sua famiglia in Giappone. Il libro sarà presentato l'1 febbraio da Cavallotto a Catania

Di Ombretta Grasso |

Una vita che è testimonianza. Dacia Maraini racconta la sua prigionia in Giappone nel 1943 con il padre Fosco, antropologo e orientalista, e la madre Topazia Alliata, pittrice e aristocratica, e le sorelle Yuki, 4 anni e Toni, 1 anno. Nel campo di concentramento di Nagoya, «tre stanze in cui dovevamo ammassarci in 19 persone», ricorda, si dorme a terra, al freddo, e si sopravvive con un pugno di riso. La piccola Dacia, 7 anni, mangia le formiche per sopportare i crampi della fame.

La scrittrice racconta ora, a 87 anni, quegli anni terribili e dolorosi nel libro “Vita mia” (Rizzoli)che presenta a Catania giovedì 1 febbraio, alle 17.30, nella libreria Ubik/Cavallotto di corso Sicilia 91 (mentre il 7 febbraio sarà alla libreria Modus vivendi di Palermo)- e che è fitto di esperienze, incontri, Storia. Una testimonianza preziosa e necessaria in questi tempi di polemiche e imbarazzi sulla Giornata della memoria appena celebrata. I ricordi del campo di detenzione della scrittrice sono rimasti chiusi «in un cantuccio del cuore», come suggeriva l’istinto conservativo. Ma un’altra voce – scrive – la spronava «a parlare. A dire, a rammentare, a testimoniare».«Sono anni che mi trascino dietro questo libro. L’ho cominciato tante volte e poi l’ho lasciato, poi ricominciato e rilasciato. Ora, in questo clima di guerra, ho pensato che dovevo assolutamente finirlo e pubblicarlo per testimoniare cosa vuol dire la guerra vista da una bambina».

I suoi genitori non giurarono fedeltà al governo nazifascista della Repubblica di Salò e per questo furono internati nel campo. Per “fedeltà alle proprie idee e rifiuto del razzismo”.«Fosco e Topazia non erano impegnati politicamente. Ma avevano le idee chiare sul nazismo e sul fascismo. Trovavano riprovevole e ingiuste le leggi fasciste che li avevano indignati e quindi, quando i rappresentanti del governo italiano e la polizia giapponese hanno chiesto loro di firmare l’adesione alla Repubblica di Salò, hanno risposto decisamente di no, pur sapendo che sarebbero stati chiusi in prigione. Erano due giovani idealisti, due persone che credevano che le proprie idee si difendono anche se c’è da pagare un costo. E in effetti abbiamo pagato un costo gravissimo. Ma io non ho mai pensato che abbiano sbagliato. Al contrario, li ho molto ammirati per la decisione presa che per me è stata una guida nella vita».

Alcune pagine sono dedicate alla Shoah, a Hiroshima. La memoria di quell’orrore sembra essersi smarrita in questi anni?«Purtroppo sì. La cultura del mercato e del consumismo scoraggia la memoria. La trova inutile. La scuola oltre tutto si ferma con lo studio alle guerre puniche e non racconta le terribili guerre del 900».Il libro è anche una storia di formazione, di resistenza. In che modo quelle scelte l’hanno segnata?«L’ho già detto: le scelte dei miei genitori sono state un esempio formidabile per me. Ho imparato le arti della resistenza e della difesa delle proprio idee».

Emerge la figura di sua madre Topazia, “una ragazza di ferro”. Quanto pensa di somigliarle?«Non lo so. Spero di essere alla sua altezza. Ma lei certamente ha dovuto combattere una doppia battaglia, quella di donna e quella di madre di tre figlie».

Scrive che il nonno era un aristocratico che se ne infischiava dell’aristocrazia.«Anche mio nonno Enrico Alliata è stato un esempio per la mia vita. Un uomo che è rimasto fedele alle sue idee. Non ha mai vissuto da ricco, ha lavorato coi contadini, non ha messo da parte nulla, tanto è vero che dopo la guerra ha dovuto vendere l’azienda vinicola. Mia madre lo adorava e credo che avesse ragione».

La Sicilia è madre o matrigna?«La Sicilia è stata sia madre che matrigna. Per certi aspetti del costume degli anni 50 era matrigna. Suscitavo scandalo perché uscivo coi ragazzi e disprezzavo l’ipocrisia. Ero abituata alla libertà. L’etica della mia famiglia era: fai quello che vuoi purché non vieni meno al rispetto di te stessa. Per altri versi mi era madre affettuosa».

Cosa cambierebbe della Sicilia e dei siciliani? Cosa non le piace?«I siciliani non conoscono la mediocrità: o sono meravigliosi o sono pestiferi. Quando parlo di peste penso alla mafia, alla crudeltà arcaica di chi non crede nella democrazia e vuole imporre la sua volontà con la prepotenza. Quando dico meravigliosi penso a coloro che si sono sacrificati per migliorare il paese, penso anche ai miei amici generosi e sempre disponibili».

Che differenza c’è tra la Palermo di ieri e quella di oggi?«Una enorme differenza. Il Sessantotto ha cambiato il mondo intero, ma moltissimo la Sicilia. Oggi direi che in generale i siciliani sono all’avanguardia nel pensiero, nell’arte, nella creatività. Purtroppo ancora non hanno saputo liberarsi di una certa superbia che in alcuni diventa volontà di potenza e arbitrio».

Ha scritto il saggio “La scuola ci salverà” e in Sicilia andrà nelle scuole a dialogare con gli studenti. La cultura cambia la società?

«Certo. La cultura ci fa capire le cose, ci allontana dallo stato animalesco. La cultura – ma deve essere sincera, e non solo una crosta appiccicata addosso – porta al dubbio, alla comprensione dell’altro, al giudizio e alla responsabilità».

Dall’intensità degli haiku alle parole come puro suono delle “Fànfole” di suo padre: che cos’è la parola per lei?«La parola è pensiero. Non esiste la realtà senza le parole. Perfino le piante e gli animali hanno un linguaggio, che conosciamo poco e spesso sottostimiamo per presunzione e arroganza, ma il linguaggio è alla base di ogni incontro e di ogni legame. In quanto a mio padre, aveva una memoria formidabile, conosceva nove lingue e ci giocava. Da questa dote nasce il delizioso libro delle Fanfole».

Pensa di far parte di un mondo che il presente non sente, anzi combatte?«Se penso alle scelte politiche di questo governo che disprezza la cultura chiamandola radical-scic, certo provo inquietudine. Ma credo che ci sia un fondo di serietà e di amore per il bello negli italiani. A volte si nasconde questa serietà, ma poi salta fuori nella sua pienezza. Io voglio credere che la maggioranza degli italiani non voglia tornare indietro a un regime autoritario buttando via a calci le buone conquiste fatte dopo l’ultima disastrosa guerra».

Ha detto che “viaggiare e scrivere sono facce della stessa medaglia”. Perché?«C’è chi viaggia solo col corpo: i turisti che non vedono nulla fuori dal programma stabilito, che stanno solo con i connazionali, conoscono solo alberghi internazionali, cibo internazionale e girano fra le antichità senza sapere niente del paese, sono come pacchi trasportati di qui e di là. Chi viaggia col corpo e col pensiero evita i luoghi del turismo di massa, cerca di capire la gente del luogo. A volte rischia, certo, perché l’incontro con altre culture può essere doloroso, ma il suo è un viaggio che va in profondità».

Nei suoi romanzi, nel suo teatro, negli interventi pubblici ha sempre denunciato le violenze sulle donne, la rappresentazione maschilista e stereotipata del mondo femminile, la mercificazione del corpo femminile. Quanto cammino c’è ancora da fare?«Molto è stato fatto con la rivoluzione del femminismo che ha cambiato radicalmente le leggi vigenti in questo paese: dalla cancellazione del diritto di famiglia come era, del delitto d’onore, dello Jus corrigendi, della differenza di salario, della penalizzazione dell’omosessualità (e questo vale anche per gli uomini naturalmente), alla legittimazione del divorzio, dell’aborto, al diritto di accesso alle professioni tradizionalmente solo maschili. Purtroppo però è più facile cambiare delle leggi che una mentalità che espande le sue radici in terreni arcaici fatti di pietre più che di terra. Ci sono inoltre ancora molti paesi in cui le donne non hanno il diritto di lavorare, di uscire da sole, di non portare il velo, di parlare in pubblico, ecc. Sì, direi che nel mondo c’è ancora molto da fare. La cosa che mi preoccupa è ascoltare la voce di alcuni che in tempi diversi avrebbero taciuto e oggi si sentono in diritto di tirare fuori una misoginia che credevamo scomparsa. Il disprezzo per le donne, buttato fuori dalla porta, sta rientrando dalla finestra. Basta guardare la pubblicità, ancora fatta soprattutto sul corpo delle donne trattato come un oggetto del desiderio maschile, privo di autonomia e personalità propria. O ascoltare alcuni uomini pubblici che parlano come fossero in una bettola dove si beve e si fa pettegolezzo. E che dire del femminicidio che ogni anno aumenta mentre i delitti in generale calano? Per me questa mattanza segnala una volontà generalizzata di castigare le donne per le loro nuove libertà e rimetterle al loro posto storico, ovvero di lavoratrici gratuite all’interno della famiglia. Che tristezza!».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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