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Lo scontro sulle province in Sicilia tra schizofrenia e difficoltà di decisione

La Consulta ha già censurato la legge Delrio per la sua contraddittorietà e la Regione Siciliana è legittimata ad agire in proprio optando per l’elezione diretta o di II livello

Di Agatino Cariola |

Sulle province in Sicilia si sta sollevando l’ennesimo scontro politico su argomenti di pretesa costituzionalità dell’attuale struttura e delle possibilità della Regione siciliana di modificarla. Poiché, su incarico del mio amico Filippo Drago, ex sindaco di Aci Castello, sono stato tra i soggetti che si sono spesi anche avanti la Corte costituzionale sulle province e continuano a farlo, sento il dovere di intervenire quantomeno a chiarire la storia della vicenda.

Le province sono assieme ai comuni gli enti che costituiscono la cd amministrazione locale. Già la legge del 1865, all’indomani dell’unificazione del Regno d’Italia, prevedeva le province con a capo il prefetto ma anche con un consiglio provinciale eletto «da tutti gli elettori comunali» e con consiglieri che «rappresenta[va]no l’intiera provincia» e che eleggevano la cd deputazione provinciale, una sorta di giunta che affiancava il prefetto. Si ricordi che nel 1905 Luigi Sturzo fu consigliere provinciale a Catania e che l’allora arcivescovo della città etnea, Francica Nava, gli mise a disposizione un piccolo appartamento in episcopio per permettergli di svolgere le sue funzioni senza il problema di ritornare a Caltagirone la sera dopo aver finito il lavoro.

Insomma, la provincia è stata il fulcro dell’organizzazione statale (prefetture, forze dell’ordine, vigili del fuoco, provveditorati, catasto, ecc., sono organizzati su base provinciale) ed espressione dell’autonomia locale, giacché è stato da sempre evidente che i comuni da soli non possono affrontare taluni problemi (a cominciare dalla rete infrastrutturale dei trasporti) e che alcuni servizi hanno bisogno di avere una regia unica. La Costituzione del 1948 ha separato la struttura statale da quella locale: le province sono state designate soprattutto come espressione dell’autonomia locale, le quali traggono la loro legittimazione per così dire dal basso, cioè dai cittadini insediati nel territorio. Già lo Statuto siciliano del 1946 aveva tracciato la linea: le province non sono solo articolazioni dell’organizzazione statale, ma sono unioni di comuni che decidono di stare assieme e da ciò quel termine di liberi consorzi che non aggiunge né toglie niente all’essenziale, cioè che l’ente intermedio o di area vasta è parte essenziale del sistema delle autonomie. È stato quindi coerente far eleggere il consiglio provinciale dai cittadini del territorio interessato; a loro volta il consiglio eleggeva il presidente e gli assessori, secondo il modello applicato al tempo nei comuni.

Nel 1993 si è introdotta l’elezione diretta del sindaco e del presidente della provincia. Gi l’anno prima, nel 1992, la Sicilia aveva stabilito l’elezione diretta del sindaco.

Attorno la provincia, del resto, si è formata parte della classe politica. Se si fanno i nomi di protagonisti della vita politica non solo regionale ci si ricorda subito che gli stessi si sono fatti conoscere ed apprezzare come presidenti di provincia. Appunto, perché l’ente di area vasta è scuola di democrazia e di amministrazione, cioè di gestione di problemi concreti (dalle strade agli edifici scolastici, ai servizi idrici e di igiene, alla programmazione sovracomunale).

Di colpo, nel 2011, le province sono state accusate di essere costosi enti e se ne è proposta l’abolizione. Prima schizofrenia istituzionale: inutile sarebbe l’ente territoriale locale, ma non l’organizzazione statale che continua ad essere conformata sul livello provinciale. Seconda schizofrenia: le province sono sì inutili, ma non le si è abolite, solo si è prevista la scomparsa dell’elezione diretta di consigli e di presidenti da parte dei cittadini e la loro sostituzione con consigli e presidenti eletti tra e dai consiglieri comunali. È apparsa così sulla scena l’elezione di secondo grado. Terza schizofrenia che mina la buona organizzazione: i consiglieri comunali sono eletti nei rispettivi paesi in tempi diversi ed allora ciò rifluisce sugli organi provinciali, i quali ad ogni elezione comunale subiscono variazioni sostanziali, senza che si riesca a programmare nulla. Non è stata modificata affatto la distribuzione delle funzioni tra i diversi livelli di governo: chi si occupa di cosa (strade, scuole, inquinamento, ecc.). Ma tant’è: il vento dominante diceva che le province sono inutili ed allora andava abolita l’elezione diretta. Ed anche l’elezione del consiglio provinciale, che già la citata legge del 1865 aveva riconosciuto e sancito.

Ci tentò il governo Monti con il decreto legge n. 201/2011: il consiglio provinciale sarebbe stato composto da non più di dieci componenti eletti dagli organi elettivi dei comuni ricadenti nel territorio della provincia; il presidente della provincia sarebbe stato eletto dal consiglio provinciale tra i suoi componenti. Quel decreto fu ritenuto illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza 220 del 2013. Il decreto legge 188/2012 è decaduto per mancata conversione.

Si è fatta allora la legge n. 56 del 2014, che porta il nome dell’allora ministro Delrio. La legge ha previsto che i consigli provinciali siano eletti dai sindaci e dai consiglieri comunali secondo appunto il modello dell’elezione di secondo grado. Il presidente della provincia tra uno dei sindaci sempre ad opera dei sindaci e dei consiglieri dei comuni. La legge Delrio ha anche previsto le città metropolitane. Infatti, la riforma costituzionale del 2001 ha introdotto in Costituzione, appunto, le città metropolitane, ma nessuno ha mai saputo cosa esse siano: l’idea è quella delle aree metropolitane, cioè che alcuni comuni (Palermo con Monreale e Villabate, ad esempio; o Catania con i paesi della fascia etnea, ma certo non con Palagonia o Calatabiano) presentano un territorio sostanzialmente omogeneo in cui i servizi pubblici vanno prestati in continuità. La legge Delrio ha operato il corto circuito istituzionale: le province con i comuni più grandi sono state battezzate città metropolitane, e così di colpo le province di Milano, Firenze, Bologna, Napoli, Roma, ecc., sono divenute città metropolitane. La legge Delrio è stata avallata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 50/2015, la quale ha affermato che nessuna norma della Costituzione impedisce l’elezione indiretta degli organi provinciali. Così la legge è applicata in Italia.

In Sicilia? Si deve specificare che la Regione ha in materia di enti locali competenza legislativa ed amministrativa di tipo esclusivo, tanto è vero che molte funzioni che in Italia sono svolte dal Ministero dell’interno in Sicilia sono esercitate dall’Assessorato regionale per le autonomie locali. Si è già notato che nel 1992 la Sicilia introdusse l’elezione diretta del sindaco, senza aspettare la riforma statale che sarebbe intervenuta solo l’anno dopo.

La nostra Regione ha operato la solita trasformazione linguistica e le province sono divenute liberi consorzi, rimanendo però con le stesse competenze di prima. Le province di Palermo, Messina e Catania sono divenute città metropolitane. La Sicilia ha fatto tante leggi, ma dal 2012 le province sono commissariate prima con commissari nominati anche all’esterno dell’amministrazione regionale ed ora con funzionari regionali.

La riforma costituzionale che va sotto il nome di Renzi-Boschi voleva eliminare le province dalla Costituzione. Dopo la bocciatura di quella proposta nel referendum del 4 dicembre 2016 la Sicilia tentò di reintrodurre l’elezione diretta dei consigli provinciali e del presidente e lo stesso per le città metropolitane. Lo Stato impugnò la disciplina regionale e la sentenza della Corte costituzionale 168/2018 si arroccò nella difesa della legge Delrio sino a definirla espressione di una riforma che deve essere applicata nell’intero territorio nazionale.

La legge Delrio ha però un baco, cioè una contraddizione interna, della quale nessuno si era accorto: vale a dire che per le città metropolitane stabilisce che di diritto il sindaco del comune capoluogo sia il sindaco metropolitano, cioè i sindaci di Palermo, Messina e Catania sono ex lege anche presidenti delle rispettive province senza essere stati votati dai cittadini dei comuni diversi da quello capoluogo. Insomma, i cittadini di Cefalù si trovano governati da un presidente della provincia che non hanno contribuito ad eleggere e che non risponde davanti a loro. E così per gli abitanti di Scordia o di Adrano rispetto al sindaco di Catania o per quelli di Patti e Taormina rispetto al sindaco di Messina. Ed in questa parte la legge Delrio – meglio la disciplina siciliana che vi dà attuazione – è applicata anche nella nostra Regione. L’eguaglianza dei cittadini va a farsi benedire con buona pace di tutti coloro che parlano di democrazia.

Il problema è stato posto ai giudici catanesi e questi ultimi lo hanno trasferito alla Corte costituzionale che con la sentenza n. 240/2021 ha dovuto prendere atto che il sistema della legge Delrio, copiato anche in Sicilia, viola il principio dell’eguaglianza tra i cittadini e quello della responsabilità politica di chi governa nei confronti degli amministrati. Quella sentenza ha chiesto al legislatore di intervenire al più presto a porre rimedio a questa ingiustizia. In quell’occasione si è fatto notare che l’assimilazione a tutto tondo tra alcune province e città metropolitane contrasta con la Costituzione, la quale invece presuppone che vi siano e funzionino entrambe.

La sentenza n. 240/2021 è rimasta inattuata. Tante discussioni ma nessuna decisione concreta. In Italia è rimasta applicata la legge Delrio, in Sicilia sono rimasti … i commissariamenti. Ecco perché, quando lo Stato ha impugnato uno dei tanti rinvii delle elezioni per gli organi di governo delle province, con sentenza n. 136/2023 la Corte costituzionale ha dovuto constatare che la Sicilia in tutti questi anni non ha fatto niente: non ha applicato a regime la Delrio, non ha dato attuazione all’avvertimento sul sindaco metropolitano contenuto nella sentenza del 2021, ma ha solo continuato con i commissariamenti. Ed allora, viene da commentare, meglio una cattiva legge come la Delrio che in qualche modo fa derivare dal corpo elettorale gli organi della provincia con l’elezione di secondo grado, che la vanificazione di ogni forma di democrazia. Per questo la Corte ha annullato uno dei tanti rinvii. Si aspetta anzi che dopo l’udienza del 15 ottobre scorso la Corte decida sul penultimo rinvio, quello disposto dalla legge siciliana n. 6/2023, nel frattempo sostituita dalla legge 24/2024, sulla cui base con decreto dell’1 ottobre scorso sono state fissate le elezioni di secondo grado per la giornata del 15 dicembre 2024.

Il punto oggi è: può la Regione siciliana porre una disciplina diversa dalla Delrio e magari reintrodurre l’elezione diretta di consigli e presidenti delle province? senza aspettare la riforma della legge statale?

Certamente la Regione può assimilare la posizione dei sindaci metropolitani a quella degli altri presidenti di provincia, escludere che essi siano di diritto i sindaci dei comuni capoluogo e prevedere che anch’essi siano eletti – anche pure in via indiretta – come gli altri presidenti. Questo lo ha detto la Corte costituzionale nella sentenza n. 136/2023: «il continuo rinvio dell’elezione dei Consigli metropolitani ha fatto sì che nessuno dei tre organi di governo delle città metropolitane abbia al momento carattere elettivo. Non il sindaco metropolitano, individuato ope legis nel sindaco del comune capoluogo: soluzione questa già censurata da questa Corte nella sentenza n. 240 del 2021, ma tuttora vigente, non essendosi ad oggi concretato l’intervento legislativo urgentemente sollecitato nella pronuncia appena richiamata, affinché il funzionamento dell’ente metropolitano si svolga in conformità ai canoni costituzionali dell’eguaglianza del voto e della responsabilità politica». In maniera esplicita il giudice costituzionale ha riconosciuto che la Sicilia può dare da subito attuazione al principio indicato nella sentenza del 2021 sui sindaci metropolitani, giacché altrimenti esso non avrebbe alcuna efficacia di principio.

Può la Sicilia derogare del tutto alla Delrio, poiché la Regione ha competenza esclusiva in materia? o il modello statale va rispettato anche in regione fin quando non viene modificato?

La mia opinione è che anche in materia di forma di governo locale esista un principio di omogeneità per il quale una regione non può disporre in maniera tanto diversa da quanto fa lo Stato. Epperò, ancora di recente ben quattro sentenze del Consiglio di giustizia amministrativa (1299 e 1320/2022, 538 e 562/2024) mi hanno dato torto ed hanno affermato testualmente sulla base dello Statuto speciale «che il legislatore regionale siciliano ha competenza esclusiva in materia di ordinamento degli enti locali, di talché la dedotta uniformità con il regime normativo scolpito» nella legge statale e, quindi, sui canoni di uguaglianza e ragionevolezza, «non trova adeguato supporto argomentativo»; che insomma il legislatore siciliano può fare quello che vuole, senza necessità di rispettare il modello statale.

A mio modo di vedere il punto, però, è un altro ed è rappresentato dal fatto che, nelle sue tante contraddizioni, la legge Delrio non esclude del tutto l’elezione diretta del consiglio metropolitano e del sindaco metropolitano, perché anzi la stessa legge (comma 22) lo consente a determinate condizioni. Il che significa che, se la Sicilia reintroducesse l’elezione diretta di consigli e presidenti provinciali, non farebbe altro che applicare un istituto già presente nella legislazione statale di riferimento, appunto il modello.

Si è trattato di un profilo esaminato nella sentenza n. 50/2025 per “salvare” la Delrio. L’argomento è stato utilizzato nel 2018 per difendere la legge siciliana che reintroduceva l’elezione diretta degli organi provinciali, ma in quell’occasione la sentenza n. 168/2018 stabilì in maniera ipocrita che l’elezione diretta degli organi della (sola) città metropolitana poteva farsi solo dopo, tra l’altro, la legge elettorale da definirsi ad opera dello Stato. Epperò, nel 2021 si è riusciti a far dire alla Corte che quell’argomento non è più convincente: «non appare più invocabile, a sostegno della non contrarietà a Costituzione del meccanismo di designazione di diritto del sindaco metropolitano, il fatto che gli statuti delle Città metropolitane possano optare per la via dell’elezione diretta di quest’ultimo. Anche a non voler considerare il complesso iter procedurale cui dovrebbe sottoporsi il Comune capoluogo, a rendere nella sostanza impraticabile tale eventualità, e quindi più gravosa la giustificabilità della mancata elettività del sindaco metropolitano, è la circostanza che, ad oggi, la legge statale contenente il relativo sistema elettorale non è intervenuta, né risultano incardinati, presso le Camere, disegni o proposte di legge in uno stadio avanzato di trattazione». Inoltre, la Corte ha riconosciuto che la mancata approvazione del disegno di riforma costituzionale cui la legge Delrio dichiaratamente si ricollegava, ha fatto venir meno il suo presupposto.

Più chiaro di così?! La Sicilia, cui si riferiva la sentenza n. 240, può reintrodurre l’elezione diretta del consiglio e del sindaco metropolitano. Anche la sentenza n. 136 parla di principio elettivo. Ma a questo punto non vi è ragione di differenziare quelle di Palermo, Messina e Catania dalle altre province siciliane. La Regione può legiferare senza attendere la riforma della Delrio a livello statale, perché così anzi elimina le situazioni di incostituzionalità venutesi a creare. Può mantenere l’elezione di secondo grado e però la deve estendere per tutti gli organi di tutti gli enti, città metropolitane comprese. Può ritornare al modello antecedente al 1993 e prevedere l’elezione diretta dei consigli, i quali a loro volta eleggono i presidenti delle province. Può reintrodurre l’elezione contestuale e diretta dei consigli e dei presidenti provinciali. Quello che la Regione non può fare è continuare a rinviare ogni decisione ed a commissariare.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA