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Ucciso perché scavava a fondo

51 anni fa l’omicidio del giornalista ragusano Giovanni Spampinato inchiesta sul contesto in cui maturò la morte del cronista de “L’Ora”

Di Carmelo Schininà |

Veniva ucciso oggi, intorno alle undici di sera, di cinquantuno anni fa. Il 27 ottobre del 1972. Seicolpi di pistola sparati a distanza ravvicinata da due diverse pistole all’interno della sua 500 bianca ferma davanti al carcere di Ragusa. A compiere il delitto fu Roberto Campria, figlio 30enne dell’allora presidente del Tribunale che, sceso dalla macchina, bussò alla porta del carcere: «Ho ammazzato una persona, vengo a costituirmi». Quella persona si chiamava Giovanni Spampinato aveva 25 anni e faceva il corrispondente da Ragusa de “L’Ora” di Palermo punto di riferimento dei media in Sicilia per il Partito Comunista. Erano gli anni dei movimenti di estrema destra, le stragi di Stato, il golpe fallito del principe Junio Valerio Borghese e “L’Ora”, diretto nel ’72 da Vittorio Nisticò, aveva una linea chiara: fare le pulci ai neofascisti (a tre anni dalla strage di piazza Fontana) e continuare le inchieste sul fenomenomafioso nel territorio siciliano. Di questo si occupava anche Spampinato. Scriveva dei neofascisti a Ragusa e Siracusa che, secondo il giornalista, avrebbero da li a poco potuto preparare una «qualcosa di grosso».

Aveva documentato la presenza di Stefano Delle Chiaie, capo di Avanguardia Nazionale, all’epoca ricercato per le bombe all’altare della patria a Roma, imputato latitante al processo Valpreda, e quella di Vittorio Quintavalle, ex Decima Mas, amico del consigliere regionale Salvatore Cilia del Movimento Sociale Italiano, partito che l’anno prima aveva fatto incetta di voti alle elezioni regionali. Inchieste come quelle di Cosimo Cristina e Mauro De Mauro, assassinati, il primo nel 1960, il secondo nel 1970, due anni prima di Spampinato, da Cosa Nostra. Uccisi per quello che stavano scrivendo. Anche Giovanni Spampinato fu ucciso per quello che stava scrivendo ma in un contesto diverso, che la verità giudiziaria di allora fece passare come un delitto comune. Roberto Campria lo aveva ammazzato perché esasperato del fatto che il giornalista sospettasse che fosse implicato nel delitto di Angelo Tumino, ingegnere, ex playboy, ex consigliere comunale dell’Msi, trafficante in opere d’arte e reperti archeologici, trovato cadavere con un colpo di pistola esploso al centro della fronte, sette mesi prima, la mattina del 26 febbraio 1972, in una strada di campagna poco fuori Ragusa. Per molto tempo prevalse la versione del giornalista sprovveduto che se l’era cercata provocando quel trentenne instabile, che girava armato perché, come figlio del presidente del tribunale, si sentiva al sopra della legge. In più depresso dal momento che, dopo gli articoli di Spampinato, la comunità ragusana lo additava come l’assassino dell’in gegnere.

La fidanzata lo aveva lasciato e lui quella sera aveva sparato perché “provocato” da Spampinato che, secondo la versione dell’assassino reo confesso, mentre erano in macchina «gli faceva la salsetta» sul delitto Tumino. Poi si era fermato davanti al carcere e gli aveva detto: «Ora scendi e costituisciti». Ma forse quel “delitto comune” na scondeva un segreto. Qualcosa di non dicibile. Una verità che il giornalista cercava scavando in un doppio livello, tra il contesto criminale dove si era consumato il delitto Tumino (probabilmente a causa di «un pezzo di gran pregio», come aveva scritto Spampinato, di cui l’ingegnere era venuto in possesso) e gli interessi dei neofascisti presenti a Ragusa che – nell’ipotesi formulata dal giornalista – coi reperti archeologici pagavano armi e sigarette ai contrabbandieri in una sorta di sistema collaudato nel quale era finito Angelo Tumino. «Qualche settimana prima di essere ucciso Giovanni mi parlò di una statua di grande valore che poteva essere la chiave per spiegare l’uccisione di Tumino. Il suo assillo era quello di sapere perché quella statua fosse così importante, come fosse stata acquistata da Tumino, che fine aveva fatto e quali collegamenti potevano esserci con l’omici dio, in rapporto ad altre persone inte- ressate a venirne in possesso. Non escludo che della cosa avesse parlato con Campria». Questa lucida testimonianza che Giuseppe Giannone, esponente del Pci di Ragusa, diciotto anni dopo, renderà al giornalista della “Gazzetta del Sud” Giuseppe Calabrese che insieme al collega Angelo Di Natale, firmeranno la prima inchiesta giornalistica su quei fatti, accende un faro su ciò che accadde tra l’ultimo articolo del 4 agosto pubblicato sulla vicenda Tumino dove Spampinato scagionava Campria dai sospetti (dopo che il figlio del presidente del Tribunale aveva tenuto una conferenza stampa in cui forniva un alibi per la sera che l’ingegnere fu ucciso: «Rimasi a casa della mia fidanzata a guardare il Festival di San Remo») e la sera del 27 ottobre.

Sono i due mesi in cui Campria e Spampinato si incontrano spesso per parlare del delitto Tumino, ognuno cerca di sapere delle cose dall’altro. Ma sono anche i mesi in cui Campria crolla psicolo gicamente, perde 18 chili, vede la sua auto andare in fiamme nella strada per Vizzini, si compra due pistole e confida a un amico che era pronto a consegnargli una lettera sigillata che avrebbe dovuto portare in procura se anche lui avesse fatto la stessa fine dell’ingegnere. Roberto Campria aveva paura di essere ucciso.

Anche Giovanni Spampinato in quel periodo era preoccupato. In una lettera indirizzata il 5 aprile alla federazione del Partito Comunista scriveva di temere che si stesse preparando qualcosa contro di lui. Si sentiva pedinato. Quella lettera molto lucida è una sintesi di quanto aveva scritto su “L’Ora” su Vittorio Quintavalle, interessato anche lui agli oggetti d’arte, che poco prima del delitto Tumino era entrato in contatto con l’ingegnere.

«Dopo l’omicidio fu interrogato dai carabinieri e la sua abitazione perquisita», scrisse Giovanni. «Il figlio Giulio di 16 anni, anch’egli a Ragusa, tentò una maldestra infiltrazione fra gli anarchici. Ma subito individuato, desistette dal tentativo. La preoccupazione del Quintavalle si nota anche in una lettera inviata a “Paese Sera”, che aveva ripreso la notizia, dal figlio Giulio, che sosteneva di non avere politicamente niente a che vedere col padre fascista. La lettera è stata scritta da qualcuno che sapeva il fatto suo, e non da Giulio». Spampinato documentava elementi legati alla strategia della tensione. «Delle Chiaie e Quintavalle operano in modo tale da scaricare sistematicamente le responsabilità delle loro azioni sui militanti della sinistra extraparlamentare per coinvolgere a livello psicologico l’intera sinistra di classe e far degenerare la campagna elettorale». Quest’ultimo passaggio della lettera, a 50 anni da quei fatti, è estremamente interessante alla luce di quello che il figlio di Roberto Campria, Saverio, nell’intervi sta esclusiva pubblicata a febbraio scorso ci ha rivelato. Si tratta di un dettaglio che, approfondito in maniera adeguata, potrebbe essere la chiave di tutto. Dagli atti del 1972 emerge che Roberto Campria, pochi giorni prima di uccidere il giornalista, era andato in Procura a raccontare che qualcuno gli aveva chiesto di portare una valigetta da Ragusa a Palermo. All’epoca disse che non sapeva né chi fosse quella persona né cosa quella valigetta avrebbe dovuto contenere, si pensò alla droga. Saverio Campria ha raccontato che, tra il 2003 e il 2004, suo padre ha detto che quella valigetta avrebbe dovuto contenere «documenti per incriminare la sinistra eversiva». Un dettaglio che apre scenari importanti anche su un’eventuale matrice politica dietro le pressioni che potrebbero aver portato Campria a uccidere Spampinato. Nella scorsa inchiesta abbiamo pubblicato per la prima volta anche una lettera anonima (rimasta sconosciuta per 50 anni) che Campria ricevette in carcere nel ’76, un anno dopo la condanna in primo grado a 21 anni (che in appello sarà ridotta di un terzo), il giorno prima che il Tribunale di Ragusa lo condannasse a un anno e mezzo per falsa testimonianza, per aver mentito sull’ultima volta che aveva visto vivo Angelo Tumino. L’anonimo fu scritto da qualcuno che si finse un religioso asserendo di conoscere i nomi delle persone («i tuoi amici mafiosi») che si celavano dietro il delitto Tumino e che lo avrebbero costretto a uccidere il giornalista. «Campria potrebbe non aver agito da solo» dice oggi Salvatore Spampinato, fratello minore di Giovanni. Nel suo libro “Assassinato perché cercava la verità”, presentato ieri a Ragusa con lo storico Carlo Ruta, uno dei massimi conoscitori dei due delitti, Salvatore Spampinato sottolinea un dettaglio importante: una delle due pistole usate di Campria per uccidere suo fratello era priva di impronte digitali. Attraverso la perizia di un medico legale fatta sull’au topsia del ’72 di Giovanni sarebbero emersi elementi tali da dimostrare che a sparare non fu soltanto Campria ma si trattò di un agguato di più persone.

Alla luce di questo Salvatore Spampinato ha presentato istanza per riaprire le indagini sull’omicidio del fratello alla Procura di Ragusa che dal 2019 ha riaperto il fascicolo rimasto a carico di ignoti sulla morte di Angelo Tumino. L’inchiesta che, a distanza di 50 anni, potrebbe svelare clamorosi colpi di scena è coordinata dal pubblico ministeroCOPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA