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“Agamennone”, quella finestra sull’(im)mondo

La tragedia di Echilo ha aperto la 57ª stagione dell’Inda. Con “Coefore” ed “Eumenidi”  tornerà ad essere prima parte dell’Orestea in versione integrale per l’evento del 9 luglio

Di Carmelita Celi |

Altro che antico. O forse proprio perché antico, il Teatro greco è uno specchio a doppio, triplo fondo che ci rimanda la nostra immagine. Ora e sempre. Senz’appello.  E’ l’archetipo nell’archetipo – che è come dire Eschilo, austero disegnatore di un mondo umano chissà quanto capace di riequilibrare le proprie fatture – a cui il regista Davide Livermore, con Lorenzo Russo Rainaldi autore anche della scenografia, e con la traduzione di Walter Lapini, non rinuncia in “Agamennone”, apertura della 57ª stagione dell’Inda che, con “Coefore” ed “Eumenidi”, tornerà ad essere prima parte dell’Orestea in versione integrale per l’evento del 9 luglio, al Teatro antico di Siracusa.

Quasi 30 metri di parete a specchio per dire che in quel teatro della crudeltà siamo irrimediabilmente compromessi, tutti. Osservatori osservati.  Appena più avanti, il ledwall del globo che, saputo e ignaro, torreggiava già in “Coefore”: un (im)mondo, là fuori, che continua a fare e disfare, a lasciarsi fare e disfare. E intanto minaccia suoni di natura e nature scomposte, creature acquatiche e voli d’uccelli (che, alla “prima” dell’altroieri, si combinavano prodigiosamente con un vero stormo di fenicotteri in volo sul Temenite!) scrosci d’onde, rumori di vento. E mare che per i Greci s’era fatto benigno solo perché “convinto” dal sacrificio del sangue di una vergine, la piccola Ifigenia. E’, qui, vestita come Alice, la figlia d’Agamennone, bambina vittoriana dalla lunga treccia bionda e occhiaie da incubo (Carlotta M.Messina, M.Chiara Signorello): più che ombra ricorrente che corre ansimante intorno alla scena e si “muta” in farfalla sul ledwall, sarà, alla lunga, piccola giustiziera “horror” a metà tra Poltergeist e gemellina di “Shining”.

 La reggia di Argo è, in fondo, quella che lasciammo l’anno scorso, violenza e religione sinistramente convergono. Il mobile-bar, il tavolino con i calici pronti a tingersi di rosso, divano scuro, grammofono d’antan e barchette di carta, bianchissime come l’anima pura d’Ifigenia, ella stessa ne fa navigare una, per gioco, ché lei, e non per gioco, è il prezzo perché la flotta greca salpi senza ostacoli. I due pianoforti, ai lati della scena, sono come fucili nelle commedie dell’Ottocento: “spareranno” subito e non al terz’atto la drammaturgia musicale di ricchezza non comune di Mario Conte (da Bach al psichedelico, dal clavicembalo a campionate chitarre fender in distorsione, antico e contemporaneo in unico, narrante respiro sonoro) grazie ai preziosi musici Diego Mingolla e Stefania Visalli che, in apertura, si salutano come lottatori prima dell’agone. Il “concerto”, infatti, la contesa comune comincia.

Ilio brucia nel racconto della sentinella (la tetragona Maria Grazia Solano, donna è anche il dolente, fintamente barbuto messaggero di Olivia Manescalchi, felice ribaltamento dell’uso antico che non voleva donne in scena ma, al tempo stesso, legato all’essenza simbolica dell’“attore”) e il ledwall restituisce una palla di fuoco.  Lo “specchio-noi”, frattanto, s’apre in corridoi assai poco umanitari d’un Coro in sedicesimo: medici e infermiere da Grande Guerra, in testa Gaia Aprea corifea-istitutrice in tailleur e cravatta, in sedia a rotelle i reduci visibilmente affetti da sindrome post-traumatica da stress.

Prima voce fuoricampo poi in tronfia presenza, Agamennone in pastrano militare e doppiopetto (costumi di Gianluca Falaschi) riceve da Sax Nicosia la monumentalità del vincitore che vuol essere trattato come un uomo ma che in realtà si sente dio. Atterrato in elicottero con moglie in attesa e concubina al seguito, dispone di microfoni anni ’40 alla maniera del “Grande dittatore” di Chaplin ad accoglierne il discorso che ha il solo carisma dell’arroganza. Nerovestita, poi in rosso fuoco bordato d’oro, decolleté generoso e generosamente in evidenza, tiene per mano Elettra e Oreste vestiti da collegiali ed eliminati a tempo debito perché i bambini ci guardano: Clitemnestra di Laura Marinoni è imperiosa e imperiale, è avvincente “Sturm und Drang” in immagine e tempra d’attrice. Duetta e duella con la musica, s’intesta di diritto la “trasmissione” dei segnali, agguanta con “maschio cuore” il calice a cui, invece, in “Coefore” s’aggrappa nell’illusione d’una “festa” che non la risparmierà. E’ tutta in quest’attimo, cinica e viscerale, non peccatrice e assassina ma demagoga e affabulatrice. Non vuol essere vedova due volte perciò trattiene Egisto – Stefano Santospago, muto e tracotante “toy man”, getta la maschera di nero angelo dello sterminio e della repressione – dal caricarsi la storia sulle spalle.

 L’invasamento di Cassandra è affare delicato e complicato che non di rado rischia lo stereotipo dell’isterica fuori controllo. Al contrario, Linda Gennari, in sofisticata “robe noire”, lo risolve con la recettività “elettrica” che, attraversata dal miracolo della preveggenza, ne fanno la sola in grado di “sentire” e capire il racconto ineffabile d’Ifigenia. Poi, squassata, limpida interprete del futuro, ha uno strazio sempre più lucido in attesa della fine. Da I tempo d’una trilogia, il finale è in realtà notevole rilancio di materiale d’intensa drammaticità perciò “Glory box” dei Portishead magnificamente intonato dalla Solano ti cattura per forza, è il trip hop della regina, tra devastazione e torvo addomesticamento al dolore. Delle ragioni di Clitemnestra ci si è sempre curati poco a favore della protervia del re, spesso ritenuta inevitabile e “naturale”. A la guerre comme à la guerre? E chi l’ha detto? Non c’è sipario che possa mai calare. Né su “Agamennone” né altrove. COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA