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Bersani: “In Sicilia sostenere Raciti

Bersani: “In Sicilia sostenere Raciti e su Crocetta il Pd deve riflettere bene”

L’intervista all’ex segretario: “Il partito rispetti se stesso”

Di Mario Barresi |

E allora come la mettiamo con questo Pd siciliano che vuole “smacchiare” il Rosario? Pierluigi Bersani, parlando del governatore Crocetta, parte da lontano: «Il Pd deve imparare a rispettare se stesso, prima di chiedere rispetto». A Palermo, laddove si deve «incoraggiare e sostenere il giovane segretario Raciti», come a Roma. Qui l’ex segretario è tornato al centro della scena come mediatore con Matteo Renzi nel feroce scontro sull’articolo 18. Ma lui, il leader rottamato, si tira fuori: «Vorrei avere solo diritto di parola senza essere zittito». E rassicura la “ditta 2.0”, raccontandoci un aneddoto inedito: «L’altro giorno Renzi mi ha chiesto: “Pierluigi, ma tu che vuoi fare? ”. E io gli faccio: caro Matteo, se nelle tue convulse giornate ti viene in mente per un nanosecondo Bersani, tu pensami come uno che è a posto. Io sto bene così. Matteo, stai sereno. Ma sereno davvero… ». E giù una fragorosa risata. Prologo emiliano a una lunga intervista esclusiva. – Onorevole Bersani, non veniva a Catania dalla campagna elettorale delle ultime Politiche. Era il 12 febbraio del 2013: 19 mesi fa. Ma è tutto cambiato, sembrano passati 19 secoli da quelle elezioni maledette… «Quelle elezioni lì hanno avuto un risultato inferiore a quello che speravo. Credo che abbiamo pagato l’ultima fase del governo Monti, incrociando l’exploit di un voto grillino ancora innocente, vergine. Detto questo, comunque, lì è cambiato tutto. Con quel voto abbiamo fatto due governi a guida Pd, dopo dieci anni di Berlusconi. Non ci sono io, c’è un altro. Ma a me va bene lo stesso, perché io non ho il culto di me stesso». – Ma il giaguaro, alla fine, non l’ha smacchiato… «No, non è così. Dopo quelle elezioni non c’è più la maggioranza per fare leggi ad personam. È questo che ha rotto la destra e che ha messo Berlusconi nella situazione in cui è. E ora lo posso dire: badate bene che alla fine quel giaguaro l’abbiamo smacchiato noi… E non mi si dica che non è vero, per giustificare l’idea che Berlusconi sia necessario. Non lo è, né numericamente, né politicamente». – Se potesse premere il tasto “rewind”, cosa non rifarebbe? Sarebbe più morbido nelle trattative con i grillini, o magari farebbe il governo assieme al centrodestra che poi tanto s’è fatto lo stesso? «Sulla destra ero stato chiaro: con loro il governo non l’avrei fatto mai e non per anti-berlusconismo. Per una questione di coerenza: è igienico per una democrazia che ci siano parti distinte e separate. Sui grillini rivendico che, con santa pazienza e sopportazione, quel giorno delle consultazioni ho messo un punto fermo che poi è rimasto: non sono io che non voglio parlare con voi, siete voi che vi mettete in frigorifero». – Allora nulla da rimproverarsi per quello che D’Alema ha definito un gol sbagliato a porta vuota… «No, ci mancherebbe. Di errori se ne fanno. Ma l’unico che mi riconosco, quello sostanziale, è aver protratto sin troppo la lealtà al governo Monti. Quando Berlusconi ha staccato la spina, dovevamo farlo anche noi. Nella prima parte dell’alleanza siamo stati capiti, quando io dicevo: “Non voglio vincere sulle macerie di questo Paese”. Nella seconda parte no, non ci hanno capiti. E lì ho sbagliato». – Per eccesso di sicurezza, perché i sondaggi la davano stravincente? «Insomma, l’aria che tirava era quella lì. Io avevo mezzo partito che mi accusava di essere poco montiano e i giornalisti che ogni mattina mi chiedevano quanto tasso di montismo avessi nel sangue. Ma io lo dicevo: guardate che il prossimo giro non è roba da banchieri… Poi è cambiato tutto». – Anche il Pd è cambiato molto in questi 19 mesi. Fino a poche settimane fa appariva come un “molosso” renziano, persino Fassina sembrava uno dei Matteo-boys. Ora volano di nuovo i piatti. Tutto cambia, ma nulla è cambiato… «Un partito di centrosinistra, per natura, vuole discutere. Io vedo con soddisfazione che ora mi spiegano come si sta in un partito, che nominano “la ditta” e in nome di essa mi richiamano all’ordine. Io son contento: vuol dire che, gira gira, alla fine bisogna che ci sia ‘sta ditta. E io, pacatamente e serenamente… ». – Ma «pacatamete e serenamente» lo diceva Veltroni… «Sì, infatti l’ho detto apposta: non si butta via niente del passato! Io pacatamente e serenamente ricordo a tutti che “la ditta” significa lealtà e discussione. Gli organismi non sono luoghi dove c’è il prendere o lasciare». – Se si riferisce al Jobs Act, oggi c’è stato un chiaro richiamo dei vescovi: pensiamo a chi non ha lavoro, il dibattito sull’articolo 18 non è centrale. «Io sono perfettamente d’accordo con monsignor Galantino. L’articolo 18 è stato già modificato, non è questo il problema. Si può sempre migliorare, eliminando le lungaggini professorali che ci ha voluto mettere la Fornero. Ma il modello Germania si fa con altre cose basiche. Torno alle parole della Cei: si deve cambiare l’agenda. Tutti i temi della riforma del lavoro vanno inquadrati nel ragionamento sull’economia: dobbiamo capire come cavolo si fa a uscire dalla recessione. Non è irrilevante sapere quanti soldi hai quando parli di flexsecurity e di ammortizzatori. Secondo punto: vogliamo ridurre la precarietà? Allora non puoi aggiungermi un altro contratto ai quaranta che già ho, che mi dice che per i prossimi vent’anni due persone allo stesso banco di lavoro hanno uno un tipo di tutele e l’altro magari nessuna. Ripartiamo dal testo di Boeri e Garibaldi e cominciamo un percorso alla fine del quale, però, per un giovane ci dev’essere la pienezza dei diritti». – Molti pensano che l’intransigenza di Renzi sia una sfida, politica e mediatica, al “totem” sindacale. «Se Renzi vuole essere sfidante, ha scelto l’oggetto sbagliato. Se lui vuole litigare un po’ coi sindacati, deve fare altro. Chiami la Cgil che non vuole i contratti aziendali e gli dici: “Guardate che è cambiato il film”. Ci manca della produttività, quindi una parte di salario, mansioni e organizzazione vengono decise su base aziendale. Ma attivando i meccanismi di partecipazione dei lavoratori, che possono dire sì o no. Alla Ducati, che è tutta Fiom, hanno fatto un accordo dove a fronte di 11 milioni di investimenti gli operai sono passati da 15 a 22 turni… ». – Però l’Europa e i mercati ci osservano, sulla riforma del lavoro. «Io capisco anche l’esigenza di comunicare ai mercati, all’Europa. Ma questi non hanno mica l’anello al naso: guardano le cose con la lente. Ci cascano due giorni, ma il terzo giorno ti dicono: cos’è? Magari si accontenterà Sacconi, nella sua mistica della precarietà, ma questo non è il messaggio al mondo». – Negli ultimi giorni è venuto fuori come grande mediatore sull’articolo 18. Lei dice che «il segretario, se vuole, deve trovare una sintesi». Ma magari è Renzi a non voler discutere. «Io sono testardamente persuaso affinché si trovi un punto di convergenza. Se avessi la flexsecurity che c’è in Danimarca, dove uno che perde il lavoro prende il 75% per quattro anni, allora gli darei indietro tutto: l’articolo 18, il 19 e pure il 20… Per fare una cosa così, malcontati, ci vogliono 15 miliardi e un’organizzazione. E allora cerchiamo di ragionare: da qui a lunedì troviamo la quadra. Non mi impressiono quando apro bocca e mi dicono che “questo vuol tornare”. Alla lunga i contenuti hanno la rivincita». – Ferruccio De Bortoli, nel pesante fondo sul “Corriere della Sera”, ha parlato di «anticipite» di Renzi. «Diciamola così: si vede quando uno scrive quel che pensa, perché la penna corre facile. Tutto perfetto, fluente e scorrevole». – Ma Renzi è in una botte di ferro, perché oggi “apres lui le déluge”… «Credo che debba durare, ma deve farsi dare una mano. Ciò che ricavo è che Matteo deve rafforzare il gioco di squadra». – A proposito di diluvio. Nel Pd in Sicilia è un cataclisma. Che ne pensa di un partito che governa mentre fa la guerra a Crocetta? «Non metto becco, non tocca a me. Ma mi auguro che ricompongano le cose, a partire da qualche presupposto: il Pd è un partito. Che deve rispettarsi, prima di essere rispettato, avendo un comportamento e delle logiche conseguenti. Dopo di che in Sicilia c’è un segretario regionale giovane, Fausto Raciti, che va incoraggiato e sostenuto. Io mi auguro che i contrasti si appianino, perché mi pare che ci siamo portati un po’ troppo avanti». – Crocetta si fa forte del fatto che se si tornasse alle urne i deputati regionali si ridurrebbero da 90 a 70… «Certo, diciamo che con questo scenario c’è una naturale ritrosia alla sfiducia». – Eppure, proprio nel giorno della visita di Renzi a Palermo, il segretario Raciti ha annunciato di voler staccare la spina a Crocetta. «Penso che abbia detto “stacchiamo la spina per discutere su nuove basi”, non voleva dire “stacchiamo la spina e andiamo tutti a spasso”. Mi affiderei a questo: il Pd si rispetti e si voglia bene. Punto. Mi fermo qui». – Il Sud non è nell’agenda Renzi? «Il Sud ha interesse che si facciano riforme: pubblica amministrazione, corruzione, economia. Politiche non dissimili dal resto d’Italia, ma rafforzate. Potrebbe esserci anche l’intervento dello Stato nell’industria, entrando anche nel capitale di qualche impresa come azionista di minoranza. Non sarebbe uno scandalo». – Dice a Renzi «stai sereno, davvero». Ma non è che vuole riprendersi la “ditta”? «Mi piacerebbe solo dare una mano, alla “ditta”. Diritto di parola, senza essere zittito. Poi se vogliono un parere, un’opinione, fa sempre piacere a noi vecchietti essere ascoltati. Il Pd al governo è davanti a problemi enormi. Se ce la fa, diventa il grande partito riformista. Che sopravvive ai suoi leader: ieri Bersani, oggi Renzi. E domani chissà chi vien dopo… ».

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