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Grassi (Asaec): “Catania, la mafia fa affari con pizzo e usura, i cittadini denunciano meno”

«I clan riprendono il controllo del territorio. Si cambi strategia per arginare i fenomeni negativi»

Di Concetto Mannisi |

Le classifiche nazionali sulla sicurezza in cui ci si attesta su posizioni sempre meno lusinghiere, la carenza quasi asfissiante di personale delle forze dell’ordine, i cittadini che – come affermato pubblicamente, alcune settimane addietro, dal prefetto Francesco Messina, direttore centrale anticrimine della polizia – hanno ripreso a non denunciare i fenomeni estorsivi e a strizzare l’occhio con sempre maggiore frequenza ad aree pericolosamente prossime alla criminalità organizzata. Ma davvero Catania, quella delle sparatorie e degli accoltellamenti davanti a stabilimenti balneari e discoteche, è la città “tranquilla” che qualcuno pretende di farci passare?

La domanda, più che spontanea, la giriamo a Nicola Grassi, presidente dell’Associazione antiestorsione Catania (Asaec), intitolata alla memoria del coraggioso imprenditore Libero Grassi, che in special modo sulla questione del “racket del pizzo” gode indiscutibilmente di un osservatorio privilegiato. «La situazione – risponde – è difficile e ci riporta indietro di 30 o 40 anni. Diverse volte abbiamo lanciato l’allarme – che rinnoviamo – rivolgendoci non soltanto alle istituzioni, in testa la prefetta Librizzi che ha sempre mostrato attenzione verso il tema, confermandosi pronta ad ogni iniziativa che potesse sensibilizzare la comunità a denunciare, ma soprattutto alla città».  «I problemi sono diversi. Parliamo di microcriminalità ma anche di un alto tasso di criminalità minorile, che ha portato la città metropolitana  a capeggiare, in negativo, queste speciali classifiche. Qualcosa si sta facendo, a cominciare dall’osservatorio prefettizio di cui anche noi come Asaec facciamo parte, ma il percorso per arginare tali fenomeni sarà lungo e faticoso e servirà il più ampio coinvolgimento di tutti gli attori coinvolti». 

«C’è un dato preoccupante, è vero – prosegue Grassi – Come emerge sempre più spesso dalle indagini giudiziarie un pezzo sempre più crescente della piccola imprenditoria catanese si rivolge alla criminalità per risolvere problemi di natura creditizia e questo vuol dire che si è rotto o si sta sgretolando quel patto sociale di adesione alle regole fondanti lo stato di diritto. Ma vi è di più. Registriamo una preoccupante recrudescenza del racket delle estorsioni a cui purtroppo non segue il momento della denuncia, per non dire dei casi che ci sono stati riferiti in cui sarebbero stati gli stessi commercianti a cercare i propri aguzzini per “mettersi a posto”…». 

«Insomma – chiosa il presidente di Asaec – L’attività principale di Cosa nostra sul territorio catanese è ritornata quella delle estorsioni e dell’usura, oltre che quella classica legata allo spaccio di droga. Tutte forma tipiche di controllo del territorio.  A questo punto si fa sempre più urgente la necessità non solo di testimoniare e socializzare storie di coraggio ma di avviare una serie di iniziative nuove e dirompenti che coinvolgano e sensibilizzino la comunità a denunciare». 

«Il prefetto Messina – sottolinea – ha associato il drastico calo delle denunce anche a una mancata reazione civica. Questo è in parte vero, ma io riscontro pure una pericolosa assuefazione al pizzo e una notevole diffidenza quando si tratta di denunciare. Per quali motivi? E’ presto detto. Una lenta risposta della giustizia nei confronti di chi ha deciso di rivolgersi alle forze dell’ordine per liberarsi dalla prepotenza criminale; una inadeguata pubblicizzazione degli straordinari strumenti di sostegno alle vittime del racket ed usura che lo Stato ha messo in campo; una sempre più diffusa diffidenza verso un’antimafia di facciata troppo spesso coinvolta e travolta da inchieste giudiziarie che ne hanno colpito la credibilità e l’affidabilità. Da Montante alla Saguto, passando per diversi presidenti di associazioni antiracket che anziché tutelare le vittime hanno tratto vergognose opportunità di business dai loro ruoli».

«C’è pure – evidenzia – il grave problema della difficoltà di accesso al credito, che spesso spinge i commercianti in difficoltà a rivolgersi a canali illegali e paracriminali che notoriamente fruiscono di grande e immediata liquidità».  Il quadro è chiaro, quali le possibili soluzioni? «Probabilmente è necessario pensare a corsie preferenziali per i reati di estorsione e usura affinché si riducano i tempi giudiziari, così da fornire una risposta più celere alla richiesta di giustizia. E, ancora, attivare, incentivare e pubblicizzare canali di accesso al credito più veloci che permettano una adeguata risposta agli imprenditori in difficoltà. Sarebbe poi necessario avviare un serio ripensamento e una radicale riforma del movimento antimafia ed antiracket affinché ritorni alla sua originaria funzione di denuncia e, ovviamente, di tutela verso chi ha il coraggio di denunciare. Sia movimento di piazza e non di palazzo in grado di cogliere il cambiamento di strategia della criminalità mafiosa, da un lato impegnata a recuperare il controllo del territorio e dall’altro sempre più capace di interloquire con mondi della politica e dell’imprenditoria e adeguarne la strategia di contrasto sociale e culturale». 

«Ricordo – si inorgoglisce Grassi – che a livello regionale è stata recepita una nostra proposta di legge di riforma dei contribuiti alle associazioni antiracket, che ha portato a  circoscrivere i requisiti di chi punta ad ottenerli. Inoltre abbiamo pure avanzato una proposta di riforma sui beni confiscati. Si tratta di contributi non solo legislativi ma anche di riflessione, in grado di sviluppare coscienza critica e partecipazione civica consapevole».   Si deve andare necessariamente oltre. «Alla necessaria forma di repressione svolta dalle forze dell’ordine, coordinate dalla Procura di Catania e dal suo procuratore capo cui va il nostro ringraziamento per l’intenso lavoro e gli ottimi risultati raggiunti attraverso inchieste giudiziarie in grado di smantellare la perversa attività corruttiva messa in atto dalla cosiddetta “mafia bianca”, va affiancata un’azione sociale che risvegli le coscienze e rinnovi la volontà di contrastare a tutti i livelli la mentalità mafiosa».   Sarebbe stata opportuna, negli anni, una maggiore attenzione della politica locale.  «E’ fondamentale, diremmo strategico, il raccordo con il mondo istituzionale politico che dovrebbe avere la sensibilità di raccogliere le istanze provenienti dal mondo associazionistico per trasformale in decisioni legislative che rispondano alle esigenze della comunità».  «Penso all’esempio della commissione regionale antimafia guidata da Claudio Fava – chiarisce – che attivando la sua principale funzione ha avviato importanti inchieste in grado di disvelare i perversi intrecci fra criminalità mafiosa, politica ed imprenditoria, soffermandosi sulla capacità della mafia di cambiare strategia al mutare delle condizioni socio culturali. E’ un discorso regionale e di più ampio respiro, lo capisco, ma forse partendo da un gradino più basso si potrebbero creare le premesse per rendere la comunità più impermeabile ai tentativi di infiltrazione della mafia». COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA