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LA STORIA

Il giallo di Alfio, falegname di Giarre morto su una nave da crociera alle Bahamas: il suo corpo restituito senza organi

Dentro il cadavere solo segatura e fogli di giornale: rogatoria internazionale dei pm di Catania per scoprire la verità

Di Mario Barresi |

Il capolinea della sua vita è un paradiso terrestre. Ma questo è un viaggio all’inferno. Di andata: da Giarre alle Bahamas per guadagnarsi il pane come falegname su una nave da crociera. E ritorno: morto in circostanze da chiarire, il suo corpo è stato restituito ai familiari “svuotato”; con segatura e fogli di giornale al posto degli organi.

Una storia raccapricciante

Alfio Torrisi si spegne a 54 anni, lo scorso 14 ottobre, al Rand Memorial Hospital di Freeport. Dov’è trasportato, quattro giorni prima, dopo un malore sul lavoro a bordo della “Paradise” della Carnival Cruises Line ormeggiata al porto della stessa cittadina a ovest dell’isola di Grand Bahama. Torrisi, molto conosciuto nella zona jonica per la perizia e la passione nel suo lavoro, viene ingaggiato dalla Techni Teak di Riposto, prestigiosa azienda di riparazione e manutenzione navi.

Il 6 ottobre la partenza da Fontanarossa assieme ad altri colleghi e al titolare della ditta: quattro aerei e quasi due giorni di viaggio per raggiungere la destinazione. L’8 ottobre la squadra è già all’opera. Torrisi si occupa del pavimento in legno della “zona lido” dell’imbarcazione (all’ultimo piano, dove c’è la piscina), senza copertura. Il 10 ottobre il falegname giarrese comincia a stare male. Prima, come ricostruiranno i familiari in un esposto, accusa «un forte mal di testa». Quasi subito non si regge più in piedi, «cominciando a zoppicare e farfugliando frasi incomprensibili». I colleghi lo soccorrono, portandolo in infermeria dove «aspettano mezz’ora» il medico di bordo. Qui Torrisi peggiora: presenta convulsioni, serra la bocca. È evidentemente vittima di un colpo di calore, ma «inspiegabilmente gli viene somministrato un sedativo».

Il primo bivio

La vicenda arriva al primo bivio: trasferire l’uomo in elisoccorso al più attrezzato ospedale di Miami o portarlo al pronto soccorso di Freeport? La scelta (condizionata magari da quella disumana regola della sanità americana: niente cure se non c’è un’assicurazione privata) tarda ad arrivare. Come l’ambulanza, che, come ricostruisce la vedova Giuseppa Carmela Cundari, «sarà chiamata in gravissimo ritardo, tre ore e mezzo dopo l’incidente». L’uomo viene fatto scendere dalla “Paradise” «sul molo d’attracco, “calato” con una sorta di gru».

La famiglia sarà avvertita 24 ore dopo. Il datore di lavoro, Giulio Nirelli, chiama alla mezzanotte italiana. E riferisce di «un non meglio precisato malessere», del ricovero e della circostanza che Torrisi sia stato sedato «a causa del forte stato di agitazione». Il giorno dopo si apprende che l’uomo è stato intubato, solo il 13 ottobre la famiglia riesce a parlare con il console italiano a Nassau, che si mette in contatto con i medici. Ai quali «raccomanda» il trasferimento in un ospedale in Florida, in quanto la struttura di Freeport «mette nero su bianco di non avere le risorse adeguate per trattarlo». L’indomani in casa Torrisi arriva la telefonata di un collega: «Alfio non c’è più». Nel certificato di morte che segue l’autopsia effettuata alle Bahamas si parla genericamente di «trombosi polmonare venosa profonda in soggetto iperteso con cardiomegalia».

Il 9 novembre la moglie del falegname, assistita dagli avvocati catanesi Antonio Fiumefreddo e Giuseppe Berretta, presenta un esposto alla Procura di Catania. Mettendo in fila tutti i fatti. In particolare la famiglia Torrisi denuncia che l’attività del falegname si sarebbe svolta «in condizioni di lavoro ai confini del disumano». Cioè «a cielo aperto per 14-16 ore al giorno» e «senza di fatto pause», in una località che «ancora in ottobre fa registrare temperature estive con tassi d’umidità fra i più elevati al mondo». E in questo contesto, aggiungono, «non si spiega la ragione per cui non siano state adottate le dovute precauzioni da parte del datore di lavoro».

Nell’esposto si segnala inoltre come l’intera procedura di soccorso sia stata «contraddistinta da una colpevole gravissima omissione»: dalle tre ore e mezza trascorse dal malore prima che fosse chiamata l’ambulanza al mancato trasferimento dal «piccolo ospedale di Freeport» a Miami, come peraltro consigliato dai medici locali.

Su questi delicati aspetti della ricostruzione La Sicilia ha chiesto la posizione della Techni Teak di Nirelli, noto nell’ambiente sportivo per essere stato il presidente del Giarre Calcio. A nome dell’imprenditore parla Emanuela Fragalà, che lo assiste assieme all’avvocato Concetto Ferrarotto: «In questa fase, non avendo avuto accesso agli atti, non abbiamo alcuna dichiarazione da fare».

Nirelli, però, risulta indagato nel fascicolo aperto dal sostituto procuratore Emanuele Vadalà, coordinato dalla procuratrice facente funzione Agata Santonocito, con l’ipotesi di reato di omicidio colposo. Con l’imprenditore c’è anche il comandante della nave Carnival, il quale – per un beffardo gioco del destino – è anch’esso ripostese: Giuseppe Castrogiovanni. L’iscrizione di Nirelli e Castrogiovanni nel registro degli indagati è un atto dovuto, nel momento in cui, l’11 dicembre scorso, il pm conferisce l’incarico per un atto irripetibile: l’autopsia a Cristoforo Pomara, direttore di Medicina legale al Policlinico di Catania.Ma il peggio deve ancora arrivare.

La seconda autopsia

La salma di Torrisi giunge a Catania per la seconda autopsia. Ma il professore Pomara, esperto di fama mondiale, si trova davanti a una sorpresa raccapricciante. Dentro il cadavere, infatti, non ci sono più gli organi. A “riempire” il corpo, alquanto robusto, del falegname di origini taorminesi c’è della segatura mista a fogli di giornali americani. Viene subito allertato il magistrato, che apre la procedura di rogatoria internazionale tutt’ora in corso.

E non è finita. Sollecitato da Pomara a ottenere i recapiti dell’anatomopatologo autore della prima (e unica) autopsia, l’avvocato Fiumefreddo interloquisce con il console onorario italiano a Nassau, Alberto Suighi. Il contenuto della telefonata finisce in un’ulteriore comunicazione al pm Vadalà. In cui si rivela che il diplomatico «ha esplicitamente riferito di avere appreso» da un non meglio identificato dipendente della Funeral Home di Freeport (la ditta di onoranze funebri che ha curato l’imbalsamazione del corpo prima del trasporto transoceanico) che gli organi vitali di Torrisi sarebbero stati «buttati via». E quando l’avvocato gli avrebbe chiesto se del fatto fosse stata informata la polizia locale, il console «rispondeva di non ricordare e successivamente asseriva di non avere riferito alcunché poiché “si trattava di una confidenza ricevuta”».

Il giallo si appesantisce. Perché, senza scomodare i casi delle scomparse di passeggeri e membri d’equipaggio di navi da crociera di cui si sono occupati i media di tutto il mondo (non c’è comunque alcun nesso con questo fatto accaduto a bordo di una Carnival), stavolta c’è almeno il sospetto che qualcuno non abbia voluto che si scoprisse come e perché il falegname siciliano è morto. Decisivo, a questo punto, diventa recuperare i “vetrini” che l’ospedale delle Bahamas dovrebbe aver conservato dopo gli accertamenti. Per Fiumefreddo e Berretta «nella vicenda del povero Torrisi ci sono molte circostanze a dir poco inquietanti: dalle cause della morte, con l’omissione dei soccorsi, per risparmiare il denaro necessario all’eliambulanza, allo stato in cui è stata consegnata la salma alle autorità italiane, fino all’incredibile scomparsa di tutti gli organi interni». Gli avvocati hanno «piena fiducia nel lavoro» dei magistrati della Procura di Catania, che «stanno facendo tutto quanto in loro potere per accertare fatti e responsabilità individuali».

Titoli di coda sul finale macabro.

Che però è l’inizio di un altro film. Quello della ricerca della verità. «Mio fratello stava benissimo, aveva fatto dei controlli medici poco prima ed era sano», singhiozza Rosaria Torrisi, ricordando che Alfio «ha lasciato una moglie e un bambino, e noi sorelle e fratelli con papà distrutti». E poi, con estrema dignità, aggiunge: «Fin dalle prime notizie avute dal Consolato abbiamo capito che molte cose non tornavano. Ora chiediamo solo giustizia. Vogliamo sapere se mio fratello sia morto di lavoro e che fine abbiano fatto i suoi organi. Sembra tutto così assurdo… Non ci daremo pace fino a quando non avremo la verità».In un Paese normale, la sua diventerebbe una battaglia di tutti.

m.barresi@lasicilia.it

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