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Tra contrabbandieri e neofascisti

L’assassinio dell’ingegnere Tumino, giallo nel giallo: sullo sfondo la banda criminale di vittoriesi e gli ambienti della destra golpista

Di Carmelo Schininà |

Un colloquio registrato in carcere rimasto sconosciuto depositato in un fascicolo della Procura di Ragusa del 1975 e alcuni dettagli su un pregiudicato arrestato per contrabbando nel 2012 a Marghera, vicende processuali slegate tra loro, e dai delitti Tumino-Spampinato che invece sono profondamente connessi, aprono scenari inediti che potrebbero avere riflessi sulle nuova inchiesta della Procura di Ragusa che ha riaperto il fascicolo sul primo delitto.

Scenari nuovi e indagini in corso che risulterebbero incomprensibili se non si ricostruisse, carte alla mano, con l’ap proccio dello storico, l’intricato scenario non solo giudiziario, in cui al tempo si erano sviluppati gli accertamenti sui due omicidi. Ma prima di scoprire di cosa si tratta dobbiamo stringere l’obbiettivo fotografico nelle quarantotto ore che seguirono all’omicidio dell’ingegnere Angelo Tumino, trovato cadavere con un colpo di pistola sparato in fronte la mattina del 26 febbraio, in una trazzera di contrada Ciàrberi, a Galèrme, frazione poco distante da Ragusa.

In quel momento gli inquirenti sembrano iscrivere il delitto in un contesto che coniuga insieme ambienti legati a contrabbandieri e neofascisti. La sera del 26 febbraio due agenti in servizio della guardia di finanza di Scoglitti, Francesco Fasanella ed Emanuele Colonna, riconobbero quella che per loro era la macchina dell’ingegnere parcheggiata in una via di quella frazione vittoriese con a bordo due persone che sospettano essere contrabbandieri. Fasanella, sentito in procura, specificò che uno dei due individui l’aveva visto poco tempo prima «a Vittoria, in piazza Senia, in una Fiat 124 sport guidata da tale Cirasa di Vittoria» La persona a cui si riferisce il finanziere (anche se in modo poco chiaro, e bisognerebbe chiedersi perché) è molto probabilmente Giuseppe Cirasa, a quel tempo conosciuto come il boss del contrabbando di sigarette, armi e reperti archeologici che andavano in scena sulle coste della Sicilia orientale. Il suo nome non entrerà mai nell’inchiesta del delitto Tumino. Il 28 febbraio, due giorni dopo l’omicidio, l’auto dell’ingegnere verrà ritrovata in una via non lontana del centro di Ragusa. Proprio quel giorno, tra varie persone, viene sentito in Procura Vittorio Quintavalle, ex Decima Mas, vicino a Junio Valerio Borghese, amico dell’allora consigliere regionale dell’Msi Salvatore Cilia. Quintavalle è anche pittore quotato, appassionato di oggetti d’arte, che qualche giorno prima dell’omicidio era venuto in contatto con Tumino dedito anche lui al commercio di “cose antiche”, tra cui reperti archeologici. A Quintavalle viene perquisita la stanza dell’Hotel Mediterraneo dove alloggia e un altro appartamento a lui riconducibile. Gli inquirenti cercano «oggetti di illecita provenienza o armi». L’impianto di questa primissima fase di indagine è praticamente lo stesso su cui continuerà a lavorare il corrispondente ragusano de “L’Ora” Giovanni Spampinato fino al 27 ottobre del ’72 quando verrà assassinato da Roberto Campria, figlio del presidente del Tribunale di Ragusa che il giornalista sospettava fosse implicato nell’omicidio Tumino. Ma se Spampinato non cambiò mai idea sul contesto neofascista e malavitoso in cui si consumò il delitto, la Procura di Ragusa abbandonò quasi subito quella pista.

Nel primo rapporto consegnato dai carabinieri, il maresciallo Francesco Leone, a capo della polizia giudiziaria, rettificò alcune cose. L’auto intercettata a Scoglitti non era la Nsu Prinz di Tumino (nel rapporto dei finanzieri il numero della targa coincide ma l’auto viene descritta di un altro colore) e i due sospettati erano un padre e un figlio che nulla avevano a che fare con le indagini. Il maresciallo evidenziò anche che in un primo momento una delle due persone a bordo dell’auto a Scoglitti si pensava fosse Quintavalle che per questo motivo era stato posto a perquisizione ma non era stato trovato nulla. La presenza di Quintavalle a Scoglitti non viene però spiegata da Leone. Il finanziere Fasanella aveva parlato di presunti contrabbandieri legati «a tale Cirasa di Vittoria». Elementi in contrasto tra loro che confondono il quadro indiziario. Fatto sta che da quel momento le indagini girano a vuoto. Fu una semplice discrasia tra due atti ufficiali o l’inizio di un grande depistaggio? La domanda sorge spontanea anche alla luce di un elemento importante mai emerso finora. Allarghiamo per un attimo l’obiettivo fotografico. Tra il ’65 e il ’75, nonostante le inchieste e gli arresti disposti dal procuratore capo Francesco Puglisi, sembrava difficile sgominare la banda Cirasa.

Ma la registrazione di un contrabbandiere finisce in un fascicolo del 1975, della cui esistenza scopriamo solo ora. Si tratta di una indagine iniziata qualche anno prima dalla guardia di Finanza, sotto la direzione di Puglisi, per stanare i contrabbandieri di Vittoria e proseguita quando il procuratore capo passò alla presidenza del Tribunale, prendendo il posto del giudice Saverio Campria che aveva abbandonato la sede di Ragusa dopo che suo figlio aveva ucciso Spampinato. La trascrizione di un colloquio in carcere conterrebbe le parole di una delle persone finite in manette nella prima ondata di arresti (che qualche tempo dopo porteranno anche a quello del boss) intercettata mentre dal carcere di Ragusa parla al telefono con Cirasa. L’arrestato chiederebbe al boss di intercedere con lo “ziu Cicciu” per farlo uscire di galera insieme agli altri contrabbandieri finiti nella retata. Il boss risponderebbe di non poter far nulla perché lo “ziu Cicciu” era ormai diventato presidente del Tribunale e aveva lasciato il comando degli uffici inquirenti. Esiste davvero questo verbale? Fu mai oggetto di verifiche chieste al Csm? Puglisi fu messo al corrente? Ammesso che il dialogo tra il contrabbandiere e Cirasa fosse avvenuto davvero, quel verbale, da solo, non sarebbe la prova di una collusione di Puglisi con la banda Cirasa, ma qualche dubbio lo suscita. Anche se parliamo di una inchiesta slegata da quella sull’omicidio Tumino sorge spontanea una domanda: se l’uccisione dell’ingegnere si fosse consumata in un contesto che poteva riguardare anche gli interessi dei contrabbandieri vittoriesi e questi, in quegli anni, avessero davvero beneficiato di una qualche forma di “protezione” è forse per questo che quel delitto sia rimasto a carico di ignoti?

Un quesito difficile da risolvere, soprattutto a 50 anni di distanza. Come complicato nella vicenda Tumino è inquadrare anche il ruolo di Quintavalle, del quale Giovanni Spampinato aveva scritto sia su “L’Ora” che nelle lettere inviate a Roma, all’amica Angela Fais, segretaria di redazione. Cosa ci faceva Quintavalle a Ragusa? Che avesse avuto contatti col mondo degli oggetti d’arte legato a Tumino era fuori di dubbio ma non fu trovato nessun indizio che lo potesse ricondurre al mondo illecito del contrabbando. Poi, tempo fa ci siamo imbattuti su una notizia locale pubblicata il 18 aprile 2013 dal quotidiano “La Nuova Venezia”: «Sigarette di contrabbando, quattro anni al camionista». L’ar ticolo parla di un romano arrestato nel porto di Marghera a novembre 2012 alla guida di un tir che trasportava 4 tonnellate di sigarette nascoste in mezzo a un carico di peperoni in un trailer-frigo di immatricolazione italiana sbarcato dalla motonave “Coraggio” proveniente da Igoumenitsa, città della Grecia. Un reato consumato tra la Grecia e il Veneto, due zone che negli anni settanta erano state ad altissima densità neofascista e punito con una condanna a 4 anni. Il romano in questione si chiama Giulio Cesare Quintavalle ed è il figlio di Vittorio Quintavalle. Da alcune verifiche che abbiamo fatto risulta che la sua società di autotrasporti, chiusa dopo essere finita al centro dell’inchiesta, aveva nel tempo cambiato diverse denominazioni, nel ’92, prima ancora nell’89, e andando a ritroso fino al 1973, anno in cui venne aperta e intestata a Giulio Cesare che, in quel tempo, appena maggiorenne, secondo quando era riuscito a documentare Spampinato, si infiltrava a Ragusa nei gruppi di sinistra. Il sospetto era che lo facesse per volere del padre presente in quegli anni a Ragusa che ha continuato a frequentare fino all’89, anni in cui morì.

Raggiunto al telefono Giulio Cesare è stato lapidario: «Su mio padre in quegli anni furono scritte solo falsità», senza aggiungere altro. L’attenzione su Quintavalle rimase viva solo nelle pagine che scrisse Spampinato fino al giorno in cui fu ucciso. Tanto la figura del neofascista, quanto quella dei contrabbandieri, uscirono subito dalle indagini sul delitto Tumino che alla fine a chiusero il cerchio solo su Roberto Campria accusato di falsa testimonianza, per aver mentito sull’ultima volta che aveva visto vivo l’ingegnere ma questo accadde solo dopo che il figlio del presidente del Tribunale uccise il giornalista. Le altre piste degli inquirenti lasciarono a carico di ignoti il delitto di Angelo Tumino. Ma mentre la Procura lentamente si arenava, silenziosa, dentro il Tribunale, si consumava una guerra intestina che avrebbe portato a inaspettati colpi di scena. Uno di questi era nascosto nel cassetto sinistro della scrivania del Presidente Saverio Campria.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA