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Quei sette proiettili nel cassetto del giudice

Il misterioso ritrovamento nell’ufficio di Campria, il presidente del Tribunale di Ragusa padre dell’assassino del giornalista Spampinato

Di Carmelo Schininà |

Il 7 dicembre del 1972 nel cassetto sinistro dello scrittoio nell’ufficio delpresidente del Tribunale di Ragusa, Saverio Campria, viene trovato un caricatore per pistola con sette proiettili calibro 6,35. Nonostante le numerose indiscrezioni uscite allora sui giornali sulla figura del giudice Campria, così divisiva dentro e fuori il Palazzo di Giustizia, questa notizia non fu mai resa nota.

Il provvedimento del procuratore generale di Catania Salvatore Spataro (che pubblichiamo per la prima volta) parla chiaro: il ritrovamento delle munizioni fu segnalato dall’allora presidente facente funzioni. Nel documento Spataro, andando oltre i suoi compiti, specifica anche che quei proiettili sono di calibro diverso rispetto alle armi usate per l’omicidio di Giovanni Spampinato (erroneamente chiamato “Giuseppe”) e chiede alla Cassazione di valutare se quella del giudice sia una detenzione abusiva. Gli atti erano nel fascicolo personale di Saverio Campria conservato al Consiglio Superiore della Magistratura. Allegati c’erano anche quelli della Suprema Corte che chiese al competente Tribunale di Messina di svolgere una indagine. Quello che non abbiamo trovato è come finì la storia. Tra quelle carte manca l’epilogo delle indagini. L’ennesimo mistero. Manca anche la “reazione” del giudice, come se di quel ritrovamento non ne fosse a conoscenza.

Cosa ci facevano quei proiettili nel cassetto della sua scrivania? Erano suoi o glieli mise qualcuno? In quel momento la vita privata e professionale del giudice Campria era messa a dura prova. Quarantuno giorni prima, il 27 ottobre, suo figlio Roberto, 30 anni, impiegato all’ufficio di Igiene mentale, aveva ucciso il corrispondente de “L’Ora” di Palermo, Giovanni Spampinato, 25 anni, che lo sospettava dell’omicidio dell’ingegnere Angelo Tumino, trafficante di oggetti d’antiquariato, avvenuto sette mesi prima, e rimasto a carico di ignoti. Saverio Campria si era ritirato in aspettativa a Caltagirone, suo paese natio, in attesa di essere trasferito.

Il ritrovamento delle munizioni avviene lo stesso giorno, il 7 dicembre, in cui gli avvocati e i procuratori di Ragusa, riuniti alle 11 del mattino in assemblea straordinaria in Tribunale firmano un documento inviato al Csm dove accusano il giudice di aver screditato «la città e i colleghi magistrati». Una settimana prima, l’inviato speciale de “La Sicilia”, Enzo Asciolla, aveva rivelato il contenuto di due esposti che Campria aveva inviato, sotto forma di memoriale, al Csm il 31 agosto e il 2 ottobre, prima che suo figlio uccidesse Spampinato. La notizia fu subito ripresa anche da altri giornali perché gli esposti contenevano accuse pesantissime. Nel primo il giudice allegò una lettera anonima che gli era stata recapitata dove era scritto che la campagna stampa indirizzata verso il figlio come maggior indiziato dell’omicidio Tumino era in realtà rivolta contro di lui al fine di cacciarlo da Ragusa. Nel secondo accusò i colleghi della Procura Agostino Fera e Francesco Puglisi, sostituto procuratore e procuratore capo che in quel momento indagavano sull’omicidio Tumino, di indiziare suo figlio Roberto del delitto senza indagarlo formalmente. Una congiura, secondo il giudice, ordita per screditare la sua figura. Scrisse che Fera, in Procura, qualche mese prima avrebbe detto a Roberto che per l’omicidio dell’ingegnere era stato disposto per lui e altre quattro persone un provvedimento di fermo poi revocato per riguardo al presidente e che il procuratore Puglisi aveva così risposto ai fratelli dell’ingegnere che sollecitavano le indagini: «Facciamo quello che possiamo ma abbiamo le mani legate perché ci troviamo di fronte a un personaggio troppo grosso per poterlo coinvolgere». Il riferimento sarebbe stato ancora una volta al figlio Roberto che, proprio in quei giorni, il 12 agosto, aveva lanciato un appello simile al procuratore generale di Catania in cui accusava la Procura di Ragusa di indiziarlo senza indagarlo formalmente.

I Campria, padre e figlio, cercarono di invocare una sorta di difesa morale davanti a una presunta congiura che, a loro dire, si consumava negli uffici della Procura. «Bisogna frenare questa colata di fango che, ad opera di ambienti non definiti ma la cui identificazione non sembra difficile, si va buttando impunemente su mio figlio e, di conseguenza, sulla mia famiglia». «Si è tentato il colpo grosso: disonorare mio figlio e farmi scappare ignominiosamente per conquistare questo regno costituito dalla presidenza del tribunale». «Magistrati e funzionari fanno a gara per diffondere ogni notizia sul figlio del presidente» (esposto del 2ottobre).

Il giudice si sentì «bersaglio di certi ambienti» anche dopo l’arresto di suo figlio. Chiese al Csm di «accertare fatti ed eventuali responsabilità», perché adesso «colpito come padre e come magistrato sono il più debole e indifeso» (esposto del 30 novembre). Cercò di rovesciare quel paradigma che voleva suo figlio Roberto “protetto”per un riguardo alla sua persona: «L’intoccabile figlio del presidente non si nascondeva nelle secche dell’immobilismo ma chiedeva luce e sollecitudine». Si spinse anche a denunciare minacce e pressioni, «mentre ero andato ad accompagnare mio figlio più piccolo a scuola, qualcuno bussò alla porta di casa e quando mia moglie domandò Chi è? una voce cavernosa rispose: dovete stare zitti altrimenti facciamo saltare in aria la casa» (esposto del 1 dicembre). Quale fosse il silenzio imposto alla famiglia e da parte di chi il giudice non lo spiegò.

Cosa fu quel memoriale? Il tentativo di difendere la sua onorabilità di padre e magistrato o quello di creare un diversivo, un’arma di distrazione di massa? Quello che è certo è che i primi due esposti, finiti sui giornali, innescarono una escalation di accuse e controaccuse. Una guerra aperta tra Campria e Puglisi che smentì la notizia di qualsiasi sospetto sul figlio del presidente circa l’omicidio Tumino. La smentita, agli occhi dell’opinione pubblica, fu un punto a favore per il figlio del presidente. Ma fu una mossa che, in quella folle partita a scacchi, il padre pagò a carissimo prezzo. Nel giugno del ’73 il procuratore generale della Cassazione, dopo aver ricevuto la lettera degli avvocati, mise sotto procedimento disciplinare Saverio Campria accusandolo aver fatto uscire il contenuto dei due esposti sui giornali, «violando il dovere della riservatezza del magistrato» e «compromettendo il prestigio dell’ordine giudiziario».

Il procedimento fu sospeso due anni dopo quando il giudice si dimise dalla magistratura. Al suo posto subentrò Puglisi. Ma c’è un dettaglio interessante nello sviluppo della vicenda: l’anonimo che il giudice aveva ricevuto ad agosto e aveva allegato al primo esposto del Csm (giorno 31) diceva che la presunta campagna diffamatoria nei suoi confronti era «partita da Vittoria, con a capo l’avvocato Marino». Questo dettaglio non era uscito sui giornali, quindi in quel momento era sconosciuto all’opinione pubblica. Forse fu un caso (o forse no), Emanuele Marino, fra l’altro difensore di Cirasa, fu il presidente degli avvocati che il 7 dicembre firmò la lettera che metteva in stato d’accusa il giudice. Finisce così la parabola di Saverio Campria dentro quel regno che era diventato ormai la sua fortezza della solitudine.

Non sapremo mai quanto il giudice conoscesse davvero della vita di suo figlio, che sul delitto Tumino e sugli oscuri traffici dell’ingegnere sapeva molto di più di quel che diceva. Da quegli esposti si evince che Campria contrattaccò fino a dove gli parve possibile spingersi. E forse anche quel tentativo da parte di suo figlio, pochi giorni prima che uccidesse Spampinato, di presentarsi in Procura come agente provocatore dopo che alcuni contrabbandieri gli avevano offerto di distrarre la Guardia di finanza per facilitare uno sbarco di sigarette, poteva essere stata una strategia (suggerita dal padre?) per sfruculiare la Procura sul tema spinoso dei contrabbandieri, coi quali il figlio aveva senza dubbio avuto dei contatti. Era emerso anche davanti alla Corte d’Assise di Siracusa durante il processo per l’omicidio Spampinato. Nella sua versione dei fatti però Roberto Campria sosteneva di essere stato avvicinato dopo le voci trapelate a Ragusa di un suo presunto coinvolgimento sull’omicidio dell’ingegnere a causa degli articoli che aveva scritto Spampinato. Era la linea difensiva per sostenere in aula la tesi della “provocazione” da parte del giornalista. Una linea che in sede giudiziaria risultò vincente ma che forse nascondeva altri elementi che avevano turbato il figlio del presidente del Tribunale. Come quell’escalation di pressioni che emerge chiaramente anche dai verbali di allora: dall’episodio della sua auto andata in fiamme nell’agosto del ’72, a quella lettera sigillata che avrebbe voluto consegnare al suo amico Antonio Bisegna e che questi avrebbe dovuto portare in Procura se gli fosse capitato quello che era successo all’ingegnere Tumino, fino al bisogno di comprare le due pistole («mi sentivo minacciato», aveva più volte ribadito) con le quali ucciderà Giovanni Spampinato. Nei mesi in cui Roberto Campria è sotto pressione, si arma e chiede insistenti colloqui col giornalista per parlare del delitto Tumino, il giudice scrive il suo memoriale impegnato a combattere una guerra su tre fronti: i suoi presunti avversari in Tribunale, un’opinione pubblica che addita il figlio come l’assassino dell’ingegnere e forse una verità a lui sconosciuta o troppo pericolosa da gestire anche per un magistrato della sua portata. Una lotta impari contro un mostro a tre teste. Manca la terza testa.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA