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Pistola e caricatore giallo a una svolta

I due cold case di Ragusa, nuovo colpo di scena: l’arma dell’assassino di Spampinato compatibile con il pezzo trovato al padre giudice

Di Carmelo Schininà |

C’è un nuovo, incredibile, colpo di scena nell’intricata vicenda dei delitti Tumino e Spampinato, doppio cold case ragusano legato a doppio filo: l’omicidio del corrispondente de “L’Ora” Giovanni Spampinato, 25 anni, ucciso il 27 ottobre del 1972, da Roberto Campria, figlio trentenne dell’allora presidente del Tribunale di Ragusa. Il giornalista sospettava fosse implicato in un altro delitto, quello dell’ingegnere Angelo Tumino, trafficante di oggetti d’arte, trovato cadavere sette mesi prima, la mattina del 26 febbraio, con un colpo di pistola al centro della fronte, in una trazzera di campagna, contrada Ciàrberi, poco fuori Ragusa. Di quel delitto il giornalista scrisse mentre da un anno e mezzo portava avanti una inchiesta sulla presenza dei neofascisti a Ragusa che secondo lui utilizzavano i reperti archeologici (come quelli che trafficava l’ingegnere) per pagare armi ai contrabbandieri che controllavano le coste orientali della Sicilia. Su quel delitto, rimasto a carico di ignoti, da quattro anni la Procura di Ragusa sta indagando, con il nuovo fascicolo assegnato al pubblico ministero Santo Fornasier.

Il colpo di scena arriva a 51 anni di distanza dai fatti, alla luce dei nuovi elementi, mai emersi prima, rivelati nella nostra inchiesta “Il Sottolivello”. Domenica scorsa abbiamo raccontato la vicenda, rimasta inspiegabilmente sconosciuta fino ad oggi, del ritrovamento, il 7 dicembre del ’72, di un caricatore per pistola con sette proiettili calibro 6,35 nel cassetto sinistro dello scrittoio nell’ufficio del presidente del Tribunale di Ragusa, Saverio Campria. Quelle munizioni, come emerge dagli atti, furono trovate dal presidente facente funzioni mentre il giudice si trovava in aspettativa a Caltagirone, suo paese natio, in attesa di essere trasferito a Roma, dopo che un mese e mezzo prima suo figlio Roberto aveva ucciso il giornalista Spampinato. Ma il fratello minore di Giovanni, Salvatore, che conosce bene i fascicoli di allora, si è accorto di un dettaglio: il 1 novembre del 1972, 5 giorni dopo l’omicidio del giornalista, nella perquisizione effettuata a casa di Roberto Campria, vengono sequestrate diverse armi (il giovane frequentava il poligono di tiro a Ragusa), tra cui una «pistola Beretta senza caricatore». Salvatore Spampinato ha pubblicato su Facebook il decreto di sequestro. Noi abbiamo trovato il verbale, compilato all’esito della perquisizione, ancora più specifico.

Parla di «una pistola Beretta, modello 950 B – Calibro 6.35, matricola G. 10862, priva del caricatore e senza cartuccia in canna, rinvenuta nel secondo cassetto del tavolo – scrivania della stanza». La Beretta senza caricatore sequestrata il 1 novembre nella casa di Roberto Campria e il caricatore con le sette munizioni trovate un mese dopo nel cassetto della scrivania nell’ufficio del padre sembrano essere compatibili, fino a sembrare i due componenti della stessa arma. Si tratta di un modello del 1952 prodotto fino al 2003, una pistola automatica che monta un caricatore da otto colpi. Se davvero si trattasse della stessa arma, visto che nel caricatore trovato nel cassetto del giudice c’erano sette proiettili e la Beretta sequestrata priva del caricatore non aveva il colpo in canna, saremmo davanti al modello da otto colpi con un proiettile mancante. Nel documento esclusivo pubblicato domenica scorsa avevamo evidenziato la “strana iniziativa” del procuratore generale di Catania, Salvatore Spataro, che negli atti relativi al ritrovamento delle munizioni, andando oltre le sue funzioni (avrebbe solo dovuto informare gli organi competenti) aveva specificato che i proiettili erano di calibro diverso rispetto a quelli usati dal figlio del giudice per l’omicidio di Giovanni Spampinato (nel documento erroneamente chiamato “Giuseppe”).

Roberto Campria infatti sparò a Spampinato con due armi comprate a Caltagirone qualche giorno prima: una Smith & Wesson calibro 38 e una Erma-Werke calibro 7,65, quest’ultima (dettaglio interessante), dopo l’omicidio, risulterà priva di impronte digitali. Perché il procuratore generale si prende la briga di specificare quel dettaglio? Vuole evitare possibili equivoci sul giudice Campria e sul delitto commesso da suo figlio o vuole sollecitare nuove indagini sull’omicidio Tumino suggerendo di prestare attenzione a quel caricatore? Del delitto Spampinato si conoscono le armi usate e l’assassino reo confesso che le utilizzò. Del delitto Tumino non furono mai trovati proiettile, arma e assassino. Il foro sulla fronte dell’ingegnere fece ipotizzare al medico legale un calibro 9 ma potrebbe esserci un certo margine d’errore. Quindi è inevitabile un dubbio, destinato a rimanere senza soluzione: potrebbe essere stata la Beretta sequestrata a Roberto Campria a esplodere il colpo che trapassò la fronte dell’ingegnere? E a cascata tutti gli altri. Perché pistola e caricatore, se facevano parte della stessa arma, erano state separate? Perché le munizioni si trovavano nel cassetto della scrivania nell’ufficio del giudice Campria? Erano state nascoste con il caricatore in un luogo sicuro (un ufficio del tribunale) dove erano poi state dimenticate? O qualcuno, dopo il sequestro della Beretta, quando il giudice, dopo che il figlio era diventato l’assassino del giornalista, si era ritirato nel suo paese natio a Caltagirone, aveva separato la pistola dal suo caricatore per farlo ritrovare in quel cassetto del tribunale? E la domanda più importante, anch’essa rimasta ad oggi senza risposta: chi sparò all’ingegnere Tumino? Il 3 agosto del ’72, pochi mesi prima di uccidere il giornalista, Roberto Campria, per fugare i sospetti che aleggiavano a Ragusa su di lui, aveva affidato alla stampa un alibi: la sera in cui uccisero Tumino era rimasto fino a tardi a casa della fidanzata a guardare il festival di San Remo. Spampinato lo aveva scritto il giorno dopo, scagionandolo davanti all’opinione pubblica. Ma al figlio del giudice non bastava. Chiedeva con insistenza al giornalista un altro articolo, ancora più chiarificatore. Temeva che la fidanzata (che ad aprile lo aveva lasciato) spaventata potesse ritrattare l’alibi. Emerge tutto dagli atti del ’72: da 3 agosto al 27 ottobre la situazione precipita in una escalation di pressioni e paure. Campria ha un crollo psicologico, perde 18 chili, gli va a fuoco la macchina, si compra due pistole, va in Procura a raccontare di presunti avvicinamenti da parte di contrabbandieri e faccendieri, confida a un amico di volergli dare una busta sigillata che avrebbe dovuto portare in Procura se gli fosse successo qualcosa. Due giorni prima di uccidere il giornalista chiese agli inquirenti di far interrogare due amici suoi e dell’ex fidanzata affinché potessero confermare, anche se de relato, il suo alibi. Il giorno prima dell’uccisione di Spampinato gli inquirenti sentirono la mamma e la sorella dell’ex fidanzata che confermarono. Il 27 ottobre, giorno del delitto, testimoniò la fidanzata che confermò l’alibi specificando però che Roberto quel pomeriggio era uscito dalla loro casa per andare a spostare la macchina e si era allontano «un quarto d’ora, mezz’ora al massimo». Un lasso di tempo, stando a quanto emerge dagli atti, troppo breve per compiere quel delitto il cui movente va sicuramente cercato nell’oscuro traffico di reperti archeologici molto attivo in quegli anni. Nella suburra degli scavi clandestini e della relativa vendita di “pezzi” come vasi, calici, anfore, crateri, dove con l’aiuto di tombaroli e scavatori si facevano affari d’oro. Affari che, secondo il giornalista, avevano destato l’interesse anche di figure legate all’estrema destra presenti a Ragusa come Vittorio Quintavalle che, dopo il delitto Tumino, fu interrogato e perquisito.

Di tutto questo scriveva Spampinato e degli interessi che insieme a Tumino, molto attivo in quel mercato, poteva avere anche Roberto Campria. Resta il fatto che il mistero della Beretta apre scenari che potrebbero riverberarsi anche sulle nuove indagini della procura di Ragusa. Come abbiamo già ricordato, dopo il rinvenimento delle munizioni nel cassetto del giudice il procuratore generale di Catania chiese alla Cassazione di valutare se quella del Presidente del Tribunale di Ragusa fosse una detenzione abusiva. Gli atti erano nel fascicolo personale di Saverio Campria conservato al Consiglio Superiore della Magistratura. Allegati c’erano anche quelli della Suprema Corte che aveva chiesto al tribunale di Messina di svolgere una indagine. Quello che non sappiamo è come finì la storia. Tra quelle carte non abbiamo trovato l’epilogo delle indagini. Non abbiamo trovato neanche “la reazione” del giudice Campria, come se di quel ritrovamento non fosse stato informato o come se, avendolo saputo, lo avesse del tutto ignorato.

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