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Lo strano “incidente” nel Duomo di Ragusa

La morte del restauratore Guarino, “esperto” di fiducia di Tumino, folgorato mentre lavorava sul campanile nella stagione dei gialli iblei

Di Carmelo Schininà |

Negli ambienti degli antiquari veniva chiamato “il professore”, per la sua profonda conoscenza della storia dell’arte e del barocco ragusano. Lasciò tutti sgomenti la notizia della sua morte, il giorno dell’Epifania del 1973. Salvatore Guarino, 36 anni, che di mestiere faceva il restauratore, rimase folgorato mentre cercava di aggiustare l’impianto elettrico del campanile del Duomo di San Giorgio a Ragusa Ibla. «Incidente sul lavoro» scrissero i giornali. Ma per molta gente restò sospetta quella morte avvenuta tre mesi dopo l’omicidio di Giovanni Spampinato e undici mesi dopo quello dell’ingegnere Angelo Tumino. Negli anni 60 Guarino aveva iniziato il mestiere di decoratore in una bottega di via Crociferi a Catania, dal ’65 era tornato a casa. Aveva restaurato le chiese di Ragusa, Palazzolo, Noto, Comiso, Chiaramonte, Modica ed era diventato il restauratore di fiducia dell’ingegnere Tumino che gli portava vasi, mobili, croste. Lui glieli rendeva unici intarsiando e decorando. Era molto conosciuto e amato quel ragazzone buono e competente.

Da poco si era trasferito nella sua bottega di Via Orfanotrofio a Ibla, che in breve tempo era diventata un museo a cielo aperto, piena di anfore, vasi attici, brocche, statuette. E qualche pezzo importante magari se lo rivendeva pure in quell’oscuro mercato di reperti provenienti dagli scavi clandestini. Di oggetti ne aveva posseduti talmente tanti che nel 1970, tre anni prima di morire, una retata della guardia di finanza lo aveva messo in serie difficoltà sequestrandogli centinaia di pezzi di gran pregio oggi visibili come “Collezione Guarino” nel museo archeologico di Ragusa. Il Duomo di San Giorgio per “Turiddu”, come lo chiamavano i suoi amici, era la sua seconda casa, ne conosceva a memoria ogni angolo e nel duomo di San Giorgio Salvatore faceva di tutto: restauratore, consulente d’arte, piccole commissioni, fino anche l’elettricista. Era stato il parroco, padre Giuseppe Cultrera, a insistere nei giorni che precedettero la sua morte affinché il restauratore (che non era un elettricista professionista ma che quel congegno conosceva bene) venisse a dare un’occhiata su in cima al campanile per capire perché ogni volta che pioveva le campane smettevano di funzionare. E così la mattina del 6 gennaio “il professore”, uscito dalla sua casa-bottega passò prima a prendere un cappuccino dall’amico Giovanni Caruso, gestore del Caffè Ibleo, a due passi dalla Cattedrale, poi andò in Duomo, accompagnato da uno dei garzoni che lavoravano da lui in bottega. Fece staccare dal ragazzo l’impianto elettrico, salì gli oltre 100 gradini della scala a chiocciola che portavano al campanile e iniziò a maneggiare i fili elettrici quando una forte scarica lo uccise sul colpo. Il suo corpo venne trovato per terra, «contorto, forse in un ultimo tentativo di sfuggire alla morte», scrisse il cronista de “La Sicilia” il giorno dopo. Secondo la perizia dei vigili del fuoco e il rapporto dei carabinieri si trattò di un incidente e infatti dal punto di vista penale fu ritenuto responsabile, proprio padre Cultrera. Il processo si concluse nel 1978 in primo grado con una condanna per omicidio colposo e una multa di due milioni di lire che il sacerdote dovette riconoscere alle sorelle e alla madre del restauratore che non era sposato né aveva figli. Poi la sentenza d’appello riformò in parte quella di primo grado riconoscendo un concorso di colpa anche di Guarino che non avrebbe staccato l’impianto elettrico prima di salire.

Il sacerdote fece ricorso in cassazione nel tentativo di liberarsi da qualsiasi responsabilità ma l’impugnazione fu giudicata inammissibile rendendo definitiva la sentenza di secondo grado. Quelle tre morti, così vicine una all’altra facevano e fanno ancora pensare. Angelo, Giovanni e Salvatore chi per un verso, chi per un altro, ebbero un ruolo attivo nelle vicende che in quei mesi portarono alla loro morte. L’omicidio dell’ingegnere era stato l’inciampo della criminalità in quel mercato oscuro legato agli scavi clandestini, il giornalista era stato ucciso perché ne aveva scritto. Ma anche il restauratore forse aveva fatto la sua parte. Dal fascicolo del 72 sull’omicidio Tumino si evince chiaramente che è la deposizione di Salvatore Guarino a guidare gli inquirenti fino a Giovanni Cutrone, il pregiudicato vicino all’Msi e trafficante di oggetti d’arte che l’anno dopo risponderà insieme a Roberto Campria di falsa testimonianza, accusati di aver mentito sull’ultima volta che avevano visto l’ingegnere e di essere usciti in sua compagnia il pomeriggio del giorno in cui sarà ucciso. E’ Guarino a raccontare il 1 marzo del ’72 al procuratore capo Puglisi di quello strano figuro che, il giorno del funerale dell’ingegnere, fuori dalla chiesa, gli si era avvicinato per fare domande su ciò che si sapeva in giro del delitto. Mise a verbale che gli aveva destato sospetto quella persona che disse di non aver mai visto prima di allora e che si era presentata col nome di “Bruno Campisi” lasciando intendere che aveva capito essere un nome falso.

Forse anche Guarino sapeva cose che non voleva o non poteva dire. A Ibla si racconta che per qualcuno era diventato il testimone scomodo dell’esistenza di una presunta consorteria (della quale faceva parte anche l’ingegnere Tumino e alla quale si era opposto il restauratore) dedita in quegli anni alla vendita all’estero di oggetti d’arte provenienti, oltre che dagli scavi clandestini di Camarina, anche dai tesori delle chiese di Ibla. Calici, d’oro, statue, quadri importanti che da Ragusa arrivavano in Svizzera. Ma queste sono solo voci di cui si dà conto solo per completezza.

E’ documentato invece quanto hanno raccontato i suoi familiari: Guarino era rimasto sconvolto dalla morte di Tumino. Negli ultimi mesi aveva paura. «Ora tocca a me», disse una volta a sua sorella maggiore senza voler aggiungere altri dettagli. Dormiva con una pistola nascosta in casa. Aveva paura “Turiddu” e trovò la morte. Incidente o omicidio? E’ possibile ordire un piano sì ben congegnato da non lasciare indizi? In alcuni ambienti di Ragusa Ibla si disse che mentre il restauratore era in cima al campanile qualcuno giù in chiesa riaccese l’alimentatore della corrente ma per la verità giudiziaria fu solo un incidente: folgorazione da scarica elettrica. Nel 1982 le voci di una “mano assassina” che riaccese l’impianto mentre il restauratore armeggiava su nel campanile le mise a verbale Bartolo Dell’Albani quando si presentò in Procura a gettare ombre sul concessionario Ernesto Di Marco che indiziava anche dell’omicidio dell’ingegnere Tumino, descrivendolo come amico in affari con Tumino, Campria e Guarino. I tre, secondo quanto dichiarò il testimone, sarebbero stati a conoscenza dell’affare del cratere greco valutato 100 milioni di lire e che, secondo il maresciallo Fontana, Di Marco avrebbe venduto in America. Accuse mai provate in quell’inchiesta finita con un’archiviazione. Nell’82 la sorella maggiore di Salvatore Guarino mise a verbale al maresciallo Fontana che suo fratello escludeva categoricamente la responsabilità di Campria nella morte di Tumino, convinto invece che l’omicidio era nato da rivalità nel commercio di oggetti d’antiquariato. Dichiarazioni che anche questa volta, come nel caso di quelle rese da Bartolo, non trovarono nessun riscontro da parte degli investigatori. Però è curioso il fatto che vede l’accusatore Bartolo Dell’Albani, alcuni anni dopo la sua deposizione, diventare nelle dicerie della gente, l’accusato dell’omicidio di Tumino che avrebbe ucciso per gelosia. Perché questa voce girò solo allora e mai durante le lunghe e controverse indagini sull’omicidio nel 1972? Quando nel 2009 si indagò sull’esposto anonimo su Bartolo Dell’Albani, quel Giovanni Caruso, il gestore del Caffè Ibleo di Ragusa Ibla che voleva molto bene a Guarino, sentito dagli inquirenti mise a verbale che la storia dell’omicidio Tumino per mano di Dell’Albani spinto da gelosia, fosse stata divulgata proprio dal parroco di San Giorgio, padre Cultrera, dopo averla appresa dalla confessione di un parrocchiano. Una voce messa in giro 20 anni dopo l’omicidio Tumino e 10 anni dopo “l’incidente” di Guarino.

Quello che dice Caruso apre uno scenario inquietante. Non solo perché saremmo di fronte al segreto confessionale violato da un sacerdote ma perché saremmo di fronte al segreto confessionale violato da “quel” sacerdote. Per alcuni “nu bravu parrinu”, per altri il custode di un segreto, rimasto chiuso dentro il Duomo di San Giorgio. Se davvero la pista passionale scritta nella lettera anonima fu il tentativo di un depistaggio e se molti anni prima ad aver messo in giro quelle voci fosse stato il parroco possiamo ipotizzare due cose: che il prete parlò perché credette che quella storia fosse vera, decidendo però di interloquire col cittadino comune e non con l’autorità giudiziaria, o perché fu indotto da qualcuno a farlo. Qualcuno che aveva tutto l’interesse ad allontanare quanto più possibile la gente dalla verità sulla morte dell’ingegnere. Una verità conosciuta forse anche da Salvatore Guarino e che per questo doveva essere messo a tacere ma senza troppo clamore alla luce del gran chiasso che già avevano prodotto il colpo di pistola esploso a brucia pelo sulla fronte di Angelo Tumino prima e poi quei sei colpi sparati da Campria a Giovanni Spampinato che sospettava fosse implicato nell’omicidio dell’ingegnere.

La verità giudiziaria di allora, corroborata dal rapporto dei carabinieri, dalla perizia dei vigili del fuoco, parla chiaro: si trattò di incidente sul lavoro. Una tragica fatalità. Ma quella morte, così vicina alle altre, e iscritta in quel contesto di affari, pressioni, paure, sembra anche il tassello di un mosaico molto più grande che disegna una storia molto diversa. Un mosaico illuminato da una luce a intermittenza che a seconda della mano che accende e spegne l’interruttore fa luce su alcuni fatti e ne lascia nell’ombra altri.

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