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Centrodestra, il “modello Sicilia” in crisi? Al governo Musumeci serve un “tagliando”

Di Mario Barresi |

Catania – Fu il primissimo birillo a rotolare nello strike del centrodestra alle Regionali, poco prima del coiutus interruptus alle Politiche e del successivo “incesto” gialloverde. E ora, nel grigio autunno fuori da Palazzo Chigi dopo le follie del Papeete, torna prepotentemente di moda. Il “modello Sicilia”. Una coalizione unita – dai postdemocristiani ai sovranisti, passando per Forza Italia – sotto il nome di un garante-galantuomo come Nello Musumeci. Per la coalizione, illanguidita dall’opposizione all’asse Pd-M5S e vogliosa di rivincita dall’Umbria in poi, oggi torna a essere una formula magica. Eppure in Sicilia questo modello mostra alcuni limiti: se non i sintomi di una crisi, i chiari segni della necessità di un “tagliando”.

Cominciamo dalla fine. E cioè dal corto circuito istituzionale fra Musumeci e l’Ars sulle nomine dei vertici dei Parchi regionali, dietro alle quali si sfoglia l’almanacco illustrato delle tensioni della maggioranza che per il presidente della Regione «non è mai stata una maggioranza», nonostante il pallottoliere di Sala d’Ercole enumeri 37 deputati su 70 ai gruppi che sostengono il governo. Vincenzo Figuccia, grillo parlante del centrodestra (anche nel salotto di Giletti, pur con un deludente ruolo di aiuto-valletta) proprio ieri ha denunciato la «lottizzazione spietata». Una tesi suggestiva, soprattutto per le opposizioni che attaccano un «governo in tilt». Eppure, se si osserva la vicenda con le lenti della realpolitik, la lettura può essere diversa. E, dunque, se una parte del centrodestra minaccia di far saltare i presidenti dei Parchi in commissione perché intollerante, per beghe locali, a uno dei nomi (Carlo Caputo, ex sindaco di Belpasso) graditi a Musumeci, allora c’è un doppio problema. Il primo è l’esagerata tensione su un tema dal quale non dipendono certo i destini della Sicilia. «Io ti distruggo», ha detto il governatore in aula (fuori microfono) al forzista Alfio Papale che faceva terra bruciata sul Parco dell’Etna. Il secondo problema è l’evidente scollatura fra il livello di governo e quello parlamentare. Il presidente della Regione, nel chiedere un parere al Cga sulla legittimità delle nomine, rivendica giustamente il suo potere politico-discrezionale. Ma allo stesso tempo mostra un elemento di debolezza: da che mondo è mondo, a Palermo, se un governo decide una nomina – dalla bocciofila regionale in su – c’è un accordo blindato dei partiti. Era così persino nella pantagruelica era di Rosario Crocetta.

Se adesso il giocattolo s’è rotto, non è solo colpa dell’ingordigia degli alleati. E le nomine sono il sintomo, non la malattia. «Il presidente esprime, seppur da post missino, un meccanismo simile alla presunta superiorità morale della sinistra. Quella di Nello – riflette un’eminenza grigia del centrodestra – è invece la sindrome della superiorità del buon amministratore. Ma la Regione non è la Provincia di Catania…». Un isolazionismo di Palazzo d’Orléans rispetto a Palazzo dei Normanni? Qualcuno comincia a temere per le prossime riforme (rifiuti, consorzi di bonifica e urbanistica) in calendario a Sala d’Ercole, ma dall’inner circle di Musumeci fanno notare che «al momento giusto la coalizione ha sempre trovato la quadra, approvando le riforme in dieci minuti». E poi i buoni propositi non mancano. In estate, nel corso di una cena palermitana da “Ciccio passami l’olio” offerta da Musumeci, i big del centrodestra avevano concordato un «maggiore raccordo fra governo e Ars», programmando un incontro conviviale fisso al mese e addirittura una «scampagnata di coalizione».

Accadeva poco prima del giuramento del Conte-bis, altro elemento che ha cambiato molto lo scenario siciliano. Al governo non c’è più Matteo Salvini, unico riferimento nazionale (al netto del flirt politico mai consumato) di Musumeci. Che, sfruttando quello che i suoi sherpa definiscono «il valore aggiunto della caratura istituzionale», è stato persino costretto a ricevere, con sorriso d’ordinanza dietro la bandiera della Trinacria, l’odiatissimo Giancarlo Cancelleri, viceministro grillino, seppellendo i rancori personali in nome di «un lavoro comune per il bene dei siciliani». Ma questa è un’altra storia.

La polarizzazione del centrodestra nazionale d’opposizione – molto simile al “modello Sicilia” – ha aperto più di uno squarcio nell’Isola. Oggi, a Roma, alla manifestazione anti-giallorossi di Lega, FdI e Fi, non ci sarà Gianfranco Miccichè. Per quell’arguto volpone dem di Antonello Cracolici quest’assenza è «un fatto politico che il centrosinistra deve valorizzare». Ma Michele Mancuso, fedelissimo del commissario regionale azzurro, è ufficialmente tranchant: «Cracolici è un campione di umorismo, Micciché e Forza Italia non cercano valorizzazioni dalla sinistra ma dai siciliani». È la risposta giusta al momento giusto. Ma quella di chi conosce bene alcune “convergenze parallele” della politica siciliana è già nel modello già sperimentato in passato alle Amministrative (a Gela, a Bagheria e ad Acicastello), quel «patto dei moderati» il cui copyright è rivendicato, oltre che da Miccichè, da Luca Sammartino, renziano non ancora fuoriuscito dal Pd.

E ora nella tornata di primavera nei comuni siciliani c’è da attendersi un altro rimescolamento di carte. E non è detto che, al di là delle prove di alleanza fra M5S e Pd, anche alcuni pezzi del centrodestra non si facciano prendere dal “famolo strano” municipale. A partire da quelli che – con l’uscita della Lega dall’Ars, la freddezza di Giorgia Meloni per Musumeci mancato “fratello” (d’Italia) e la fatwa di Miccichè sul vicepresidente Gaeatano Armao – oggi sembrano gli alleati più fedeli del governatore. Ovvero: i “nipotini” di Totò Cuffaro e di Raffaele Lombardo. Quello di Nello è più che mai il “pizzo che piace ai moderati”: osannato, nei giorni di Pontida, alla convention dell’Udc, la cui capogruppo all’Ars, Eleononra Lo Curto, è l’unica esponente di centrodestra a esporsi in favore del presidente sul caso dei Parchi, additando chi «imbastisce polemiche per stoppare l’azione del governo». E poi, oltre alla fiducia più volte manifestata dal centrista Saverio Romano, il rapporto solido con gli autonomisti. Lombardo, pur restando in tribuna vip, si autodefinisce «un musumeciano di ferro» e smentisce la benché minima tentazione per Italia Viva. I suoi discepoli continuano a considerare il presidente di Militello «un leader naturale», mentre minacciano fuoco e fiamme contro altri alleati, a partire dai meloniani di Salvo Pogliese, “reo” di aver dato il benservito ad Antonio Vitale al vertice della partecipata catanese Sidra. «Se questo è il livello di lealtà – sussurrano i Raffaele-boys – alle Comunali ne vedremo delle belle…».

Cosa resta del “modello Sicilia”? Una Regione azzoppata dalla mancata parifica della Corte dei conti al Rendiconto 2018 con lo stop alle nuove spese per tutto l’anno, il che aumenta le fibrillazioni fra gli alleati a bocca asciutta. Ma il governatore (che nei sondaggi continua ad avere un gradimento superiore ai suoi partner) ha dalla sua parte il fattore tempo. Sarebbe comunque lui, oggi, il candidato del centrodestra? Forse sì, anche per l’incapacità di emergere degli altri potenziali leader. E potrebbe esserlo – magari nel terzo tempo di una sfida col viceministro Cancelleri sostenuto stavolta anche dal Pd – anche nel 2022. Anche perché, con il proporzionale puro all’orizzonte nel 2023, in Sicilia un “partito del presidente” avrebbe comunque un suo peso. E Musumeci – amante dei cavalli, ma più esperto di trotto che di galoppo – questo lo sa bene. E perciò non ha alcuna fretta. Anche se deve ancora metabolizzare una verità: il suo vero problema, oggi, non è la mancanza di una maggioranza; ma l’assenza di una coalizione. I partiti, l’Ars e il governo – a due anni dal “patto dell’arancino” – sono scollegati come i chicchi di riso dentro un pezzo di tavola calda che non va riscaldato. Ma fritto daccapo. Con olio nuovo.

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