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L'INTERVISTA

Brando, da chitarrista del fenomeno catanese dei Boppin’ Kids a produttore: «Vi racconto 40 anni di rock’n’roll»

Gli inizi, la gavetta, l'impatto con le case discografiche: Orazio Grillo e la sua vita tra le note

Di Leonardo Lodato |

C’era una ragazzo, anzi un ragazzino, che come me, amava i Beatles e i Rolling Stones. Più o meno. Aveva il ciuffo, adorava il rockabilly, e una volta uscito da scuola, imbracciava la sua chitarra e si scatenava a ritmo di rock’n’roll.

Orazio Grillo, detto Brando, oggi non è più quel ragazzino che ascoltava Elvis e gli Stray Cats.

«Oggi sono un cinquantenne… suonato, ho trascorso una vita a sei corde. Ho sempre fatto il mestiere che amavo. Sono stato fortunato perché sono riuscito a cavalcare le ultime grandi onde del mercato italiano. Trentacinque anni di conoscenze, di personaggi, di aneddoti, passando dai Rem ai B-52s, a trovarmi davanti a 100mila persone, a parlare con Cris Cornell (frontman dei Soundgarden, ndr). Oggi sono una persona consapevole di quello che fa, scegliere la musica da produrre, gli artisti da seguire, i progetti. L’obiettivo? In un mondo a colori, realizzare il film in bianco e nero più bello della storia».

Un film, in senso virtuale, che vorrebbe raccontare un mercato discografico che, dai primi anni Ottanta ad oggi, è cambiato in maniera repentina.

«Dai tempi dei Boppin’ Kids è cambiata Catania così così come è cambiato il mondo. Ricordo agli inizi una spinta fortissima verso la musica ricercata, legata in quell’epoca a due fattori principali, la presenza di una base americana, Sigonella, che, non essendoci il web, era l’unico modo per avere contatti con ragazzi che arrivavano dagli Usa, con un negozio di dischi che ha portato da noi il rock o comunque la musica non commerciale. Poi, c’erano gli appassionati che avevano voglia di fare proseliti, penso a gente come Nico Libra, Piero Toscano, i fratelli Bartoli, Giuseppe e Fabrizio, che andavano a Londra e portavano qui punk, ska, rockabilly. C’era Francesco Virlinzi che poi diventerà anche il produttore dei Boppin’ Kids. Poi i club, non solo a Catania, con una serata dedicata alla musica alternativa. E bisogna dare atto che anche la tv locale dava molto spazio alle band della città. Tutto questo ha fatto di Catania una punta di diamante della musica rock alternativa. I Rem, al loro terzo album, vendevano 1000 copie a Catania e cento nel resto d’Italia. A un certo punto tutto è cambiato. La città si è adeguata allo stereotipo. Più una situazione da Formentera che non da New York o da Seattle».

Hai “combattuto” perché la Catania Seattle d’Italia fosse Catania e non Seattle, cosa rimane oggi dell’eredità di quella generazione “illuminata”?

«Lo spunto di Seattle era legato al fatto che si era creata una scuola catanese. Io e i Boppin’ Kids eravamo tra le 10 band rockabilly più blasonate del mondo. Da Virlinzi firmai con la Polygram e Francesco ha aperto la sua etichetta, la Cyclope Records, distribuita dalla Universal. Si disse Seattle d’Italia per lanciare giornalisticamente questo fenomeno. A un certo punto mi sono opposto perché sembra paradossale ma non avevamo il background. Ancora moltissimi continuano a raccontare quel fenomeno, a fare quello che adesso fanno gli algoritmi ma che una volta facevano le persone (ti è piaciuto questo? Allora potesti ascoltare quest’altro…). Era la magia di quegli anni irripetibili che si concludono nel ’94-’95».

Nel frattempo, da musicista hai deciso di passare dall’altra parte della barricata e diventare produttore. Perché?

«Un passaggio naturale. Con i Boppin’ abbiamo avuto un impatto immediato con l’industria discografica e questo mi ha affascinato sin dall’inizio. Alla fine degli anni ’90, frequentavo Lorenzo Cherubini, abbiamo scritto insieme, mi si è acceso il pallino del controllo totale, mi sentivo una specie di Zeman musicale e ho cominciato a portare avanti alcuni progetti semialternativi. Il protorap all’inizio degli anni 2000, poi sono entrato a RTL, grazie al cui presidente ho cominciato la mia “scalata” alle case discografiche. Sono stato a capo dell’etichetta Ultrasuoni, abbiamo pubblicato “Viva i romantici” dei Modà che ancora oggi detiene il record di disco fisico più venduto dal 2010. Rtl Rds e Radio Italia sono state una palestra enorme. Poi è arrivato Sanremo sempre con i Modà in coppia con Emma, secondi nel 2012. E il grande salto in Universal come direttore artistico. Lì ho prodotto “Schiena” di Emma Marrone, quadruplo platino, ed è nata la frequentazione con “Amici”. Nel 2015 abbiamo fondato insieme a mia moglie Raffaella Aldieri il nostro marchio Go Wild (dal titolo del primo album dei Boppin’ Kids), società di produzione discografica ed editoriale. Oltre 40 album prodotti, Edoardo Bennato con “Pronti a salpare”, Enrico Nigiotti, e ancora “The voice” in tv con Raffaella Carrà. Tante tournée, Nesli con tre festival di Sanremo. Oggi, con la mia società, mi occupo anche di individuare, vendere e comprare cataloghi di artisti per conto di alcuni fondi americani».

Questo è Brando, un uomo, un artista, in un mondo di squali. Ma oggi chi comanda nello showbiz musicale?

«I social, Instagram, TikTok. Negli ultimi 5 anni le piattaforme di streaming, e adesso in particolare Spotify, sono al vertice della catena del mercato discografico. Sicuramente radio e tv perdono di appeal anche se sono sempre determinanti. All’interno di questa piramide ci sono due, tre nomi in tutto. I tormentoni dell’estate, al primo, secondo e terzo posto, sono personaggi usciti da “Amici”, il talent della De Filippi, ci sarà un motivo…».

I giovani, una volta sudavano nelle cantine, nei pub, oggi vivono comodamente nella loro cameretta o, al massimo, partecipano a qualche talent tv. Cosa c’è di reale nel successo di tanti trapper, di “consumatori bulimici” di autotune.

«Pensa che i Boppin’ Kids, per tornare alla Catania anni Ottanta, era progetto senza futuro, perché un gruppo rockabilly a Catania non poteva funzionare. Eppure in poco tempo Red Ronnie, Renzo Arbore, quella tipologia di “illuminati” ci ha dato una spinta immediata e ci siamo ritrovati catapultati sul mercato. Sono in mezzo agli squali da quando ero minorenne. Un percorso molto lungo, tre decadi che ho affrontato in tutte le salse, ho lavorato moltissimo. Ho anche saputo incassare, e nei momenti di difficoltà non ho mai abbassato la guardia. Un’enorme passione che è diventata un mestiere che mi ha dato e continua a darmi tante soddisfazioni. Fare gavetta sembra un termine da boomer ma in realtà serve per apprendere. E’ stata la curiosità che mi ha portato oltre. Temo che questa curiosità non ci sia più. Molti artisti giovani vanno pochissimo indietro con l’orologio musicale. C’è poca ricerca, anche se devo ammettere, per esperienza personale, che ci sono in giro tanti ragazzi davvero in gamba. Prima bisognava farsi il mazzo, non c’era la Rete e si usava il vecchio metodo all’inglese: mettere su una band, pubblicare un disco, diventare prima dei local heroes, poi suonare dappertutto per farsi conoscere anche altrove. E’ durato fino ai tempi dei Subsonica. Oggi un influencer può raggiungere da casa milioni di persone, e allora ti rendi conto che questo gioco è finito perché se anche ci fosse una band che vuole muoversi come gli artisti veri, facendosi il culo, scrivendo canzoni e andando a suonare, il talento non basta. Oggi si punta a un successo pilotato che porta a quell’ascolto compulsivo in grado di creare delle star da cellulare, fenomeni autoreferenziali da cotto e mangiato. Fai Sanremo per avere un pubblico più vasto, dischi di platino e grandi successi sono un po’ come Babbo Natale: c’è ma non esiste…».

Come funziona, allora, il mercato? I grandi nomi, per intenderci gli artisti del passato che ancora oggi calcano i palcoscenici, hanno paura di Spotify? Cosa vuol dire oggi avere successo nel mondo della musica?

«Dal 2016 ad oggi il mercato è cambiato radicalmente. E’ sparito il retail, è finito il “fisico”. I grandi distributori vendevano principalmente ai centri commerciali. All’improvviso scompaiono i cd, perché bisogna passare al digitale. L’interregno di iTunes, dove però c’è un guadagno, 1 euro per un singolo, dieci per un album (quando un album costava 20 euro). Diventa streaming, nasce questa sorta di juke box digitale. TikTok fino a 2 anni fa non retrocedeva diritti, l’artista di oggi che fa urban contemporary, trap, ha poco margine dal prodotto che si chiama fonomeccanico. Quando si parla di dischi più venduti, in realtà, non sono più venduti ma più streammati, un misto con una parte di fisico. L’attitudine è quella di raggiungere il successo immediato partendo da sconosciuti che sono già autopromozionati. Il giovane direttore artistico, non gira più per locali o guarda i video, non si costruisce il personaggio ma ti arriva autocostruito. I ragazzi sono molto più bravi, la casa discografica diventa una sorta di società di servizi. Anche se ci sono multinazionali, etichette e produttori che continuano a fare questo lavoro. Per gli artisti mainstream, si crea una dicotomia. Funzionano moltissimo dal vivo perché hanno il repertorio (penso a Pezzali, Jovanotti, Ligabue, l’apoteosi è Vasco) anche se le loro vendite discografiche sono molto più basse di una volta. Il costo per realizzare l’album di Zucchero non è quello del trapper di turno».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA