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Il partito unico dei cittadini in aiuto ai sindaci

Oggi i riti collettivi, anche quelli familiari, faticano a resistere: lunghe, lunghissime le pause fra un matrimonio e un funerale.

Di Antonello Piraneo |

C’era una volta la festa del voto, quel rito collettivo in cui plasticamente una città si faceva comunità, e non soltanto in rima. Quella giornata in cui tutto ruotava attorno ai seggi, le sezioni allestite nelle scuole magari dove ogni mattina si accompagnavano i figli. E comunque erano corridoi conosciuti, almeno nel senso dell’appartenenza al momento più alto di una democrazia compiuta: il voto, la scelta. Un piccolo mondo antico che non esiste più, come le paste da portare dalla mamma o dalla suocera per l’affollato pranzo della domenica, come l’attesa per le immagini dei gol. Oggi i riti collettivi, anche quelli familiari, faticano a resistere: lunghe, lunghissime le pause fra un matrimonio e un funerale.

A monte c’è la disgregazione dei valori che meriterebbe un approccio sociologico che non ci appartiene, a valle c’è una disaffezione all’essere e a farsi parte attiva del processo democratico. Una pericolosa deriva qualunquista che oggi e domani porterà più del 30 per cento degli aventi diritto al voto chissà dove, ma certamente non al seggio indicato nel certificato elettorale, sommerso in un cassetto, come fosse una fastidiosa cartaccia. Prima accadeva per improbabili referendum, adesso è una costante che si ripete anche in occasione delle Amministrative, cioè quando si sceglie il sindaco che inciderà sulla nostra quotidianità. Salvo poi a lamentarsi delle decisioni che verranno prese. È questa stessa deriva che annulla le differenze fra le visioni di futuro, fra i candidati. Nessuna scala di sciasciana memoria – uomini, ominicchi, quaquaraquà… : tutti uguali. Così rischiano di avere lo stesso peso guasconate e ragionamenti, perfetti sconosciuti, parvenu in cerca di visibilità e affermati professionisti che si scommettono su un campo altro rispetto alla propria comfort zone. Un appiattimento pericoloso, pericolosissimo, che si evita avendo dentro gli anticorpi della conoscenza, della passione civica o più banalmente delle certezze di fine mese.

Ecco il punto, il nodo, il freno, il baratro civico, la madre di tutte le domande: nella Sicilia della precarietà – precario è il lavoro, precaria è la legalità, precari sono i collegamenti come pure la pulizia delle strade – in questa Sicilia bella, dannata e anche un po’ puttana perché si concede al pifferaio magico di turno, il voto, il voto libero e non condizionato da una promessa a breve termine, appartiene a una minoranza elitaria?

La domanda non è retorica e la risposta deve venire da tutti, ma intanto da chi può incidere con la propria azione sul futuro almeno immediato dei nostri territori, insomma da chi governa Paese e Regione, cioè il centrodestra o destracentro che punta forte sull’en plein, (ri)prendendosi anche Catania, la città più grande di questa tornata amministrativa. La prova muscolare dei leader nazionali, tutti insieme sullo stesso palco, esemplifica questa ambizione.

In quel mondo antico dei riti collettivi, correre per amministrare la propria città, per diventarne il “primo cittadino”, costituiva un sogno, un trampolino di lancio per una carriera politica importante. Oggi metterci la faccia davvero, nel senso di candidarsi per vincere, rappresenta una missione, un atto d’amore più che un investimento politico personale. La paura dei conti in rosso, fra trasferimenti ridotti ed evasione contributiva direttamente proporzionale alla crescita del disagio sociale, il pesante gravame di problemi irrisolti, i vuoti d’organico in uno con il blocco delle assunzioni, l’incubo della firma: un cocktail venefico.Per questo non basta il Partito Unico dei Sindaci, il cui acronimo peraltro rimanda a qualcosa di sgradevole. E non essendoci in nessuno schieramento Superman, né potendo mettere in squadra i Fantastici Quattro, a qualsiasi sindaco serve più che mai la sponda del Partito Unico dei Cittadini, al quale possono e debbono iscriversi anche coloro che oggi e domani non andranno a votare: perché si fa politica ogni giorno, per esempio rispettando le regole, favorendo la crescita legalitaria, offrendo in maniera propositiva la “massa critica” di cui si dispone. Non esistono soltanto i diritti, ci sono pure i doveri.

Le nostre città hanno disperato bisogno di essere più coese e meno arcipelago – ogni quartiere un’isola a sé stante – per provare a guardare oltre il contingente. In questo senso l’esito del sondaggio su Catania lanciato nelle settimane scorse da lasicilia.it ci ha fatto paura: il lavoro e la cultura erano in coda tra le priorità indicate. Tradotto: i cittadini sono così sfiduciati da non darsi una speranza di sviluppo né un orizzonte più ampio del presente.Possiamo arrenderci a questo andazzo che riguarda la Sicilia tutta, non soltanto Catania e non soltanto il terzo dell’Isola che va al voto? No. E la reazione deve essere di tutti: questo giornale, così com’è, si offre come agorà dei 391 comuni siciliani.

C’era una volta è l’incipit delle favole. Questa che mira a essere una umile, sincera e laica narrazione sa non di potere avere la chiusa propria delle fiabe: «E tutti vissero felici e contenti». Ma è doveroso sperare almeno che si possa dire: «E molti vissero convinti di avere fatto il massimo». Per sé e per gli altri.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA