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Padre Giovanni Raciti, medico, marito e oggi sacerdote: «Il Signore sa»

Di Rossella Jannello |

Ed è tutto qui il fascino della storia di padre Giovanni Raciti, 68 anni, già primario dell’Unità operativa di Urologia del Garibaldi e ora vicario della parrocchia “Resurrezione del Signore” a Librino. Una storia da raccontare con rispetto, che ha per sfondo il mistero della Fede.

Padre Raciti, come comincia, una vita fa, la sua storia?

«Come tante altre vite: ho frequentato il liceo scientifico al Boggiolera in pieno ‘68, poi la scelta di Medicina (anche se avevo pensato anche a Ingegneria) con esiti molto buoni. Poi la specializzazione in Chirurgia generale con il prof. Basile e, durante il tirocinio al Vittorio Emanuele, l’incontro, fecondo con l’urologo Magnano di San Lio che mi ha insegnato ad amare questa branca della Chirurgia. Da qui la seconda specializzazione in Urologia e il lavoro in reparto dal 1980 fino a diventare l’aiuto di Magnano e poi, dal ‘98, primario dell’Unità operativa che è nata al Vittorio Emanuele per spostarsi poi al San Luigi e, ancora a Garibaldi Centro e infine a Nesima dove sono rimasto fino alla pensione, nel 2011».

E nel frattempo la sua vita privata?

«Ho incontrato mia moglie Cinzia Parisi qualche tempo prima e ci siamo sposati l’8 settembre del 1977. Poi sono nati i nostri due figli, Carmelo e Daniela. Già da fidanzati e poi anche dopo, come gruppo sposi abbiamo preso a frequentare il santuario dell’Addolorata a Mascalucia, del padri Passionisti. E nel tempo, l’impegno ecclesiale è aumentato e si è demarcato meglio. Siamo dunque entrati a far parte, come coppia, dell’istituto secolare Missionarie della Passione, un istituto di vita consacrata per laici che continuano però la loro vita nel mondo».

Qual è stato il momento della svolta?

«Nel 2000 mia moglie si era ammalata ma aveva superato tutto; dieci anni dopo una ripresa del suo male che il 15 marzo del 2013 ne ha causato la morte. Ho affrettato la mia pensione perchè volevo dedicarmi solo a lei e ricordo i quindici giorni passati insieme in ospedale come il periodo più intenso della nostra vita di coppia. Ma la morte è sempre difficile da accettare».

Come è stato quel momento?

«Brutto, pieno di dolore, di rabbia, di frustrazione da marito e da medico. Poi, dopo qualche tempo si fa avanti la vocazione, l’idea del sacerdozio. Che ho scacciato finché ho potuto, credendo fosse una sorta di reazione al dolore. E’ stato il mio direttore spirituale a suggerirmi di assecondare invece quella voce. E così, dopo avere cominciato gli studi di Teologia, ho chiesto un colloquio con l’arcivescovo al quale ho rivelato che cosa mi stava accadendo. Sua Eccellenza ha voluto pensarci su e solo dopo un annetto mi ha dato il suo benestare».

E come si è tradotto tutto ciò?

«Ho conseguito la laurea in Teologia e il vescovo ha disposto per me una formazione ad personam che ha previsto tutti i passaggi canonici rituale. Nel novembre del 2016 sono stato ordinato diacono e il 16 maggio di quest’anno sono diventato presbitero. Dopo un periodo nella chiesa di Sant’Agata al Borgo, sono stato mandato da tirocinante a Librino e lì sono rimasto come vicario di padre Salvo Cubbito. Ma sono anche rimasto nell’istituto di vita secolare che mia aveva visto impegnato insieme con mia moglie. Ora ne sono anche vice assistente generale».

Come e quando ha parlato ai suoi figli della sua scelta?

«Mi sentivo molto in ansia, come un bambino che nasconde una marachella. Poi nel giorno di Pasqua di qualche anno fa quando eravamo tutti riuniti, ho parlato loro con il cuore in mano. Ed è stato bello: non solo mi hanno compreso ma mi hanno incoraggiata. Mia nuora mi ha chiesto di celebrare il battesimo del figlioletto che aveva allora in grembo e la figlia di mia figlia, 5 anni, nel giorno della mia ordinazione ha portato all’altare la patena con le ostie».

Ma come si spiega a un bambino che il nonno è anche un sacerdote?

«E’ più semplice di quel che sembra perchè i bambini non hanno le nostre categorie mentali. Magari ti chiedono perchè sei vestito “strano” ma poi ti aiutano quando indossi la stola. Nell’asilo di mia nipote, sono stato chiamato come nonno e come sacerdote a celebrare messa per la festa dei nonni. E mia nipote è stata orgogliosa di me».

E il ricordo di sua moglie e di una vita fa?

«Ora finalmente penso a mia moglie con serenità, senza più angoscia. Penso che il Signore ci prepara la strada che dobbiamo percorrere. E penso anche che mia moglie sia contenta della mia scelta».

E’ più facile indossare il camice bianco o la tonaca?

«In realtà non c’è molta differenza se vivi il camice con lo spirito di un uomo che dà aiuto a un altro uomo. Arrivavo presto in reaperto, mi facevo un giro per vedere se c’era un bisogno particolare, mi sedevo sui letti per parlare con i malati. Insomma, curavo il contatto umano esattamente come faccio adesso da sacerdote prima in centro e ora a Librino dove mi trovo. E i parrocchiani mi ricambiano con affetto e con calore. Tanti di loro sono per esempio hanno voluto assistere, accanto ad amici e parenti, alla mia ordinazione sacerdotale. Però, pensandoci, una differenza c’è fra quando facevo il primario e ora che sono sacerdote…».

Quale?

«Allora, quando in reparto mancava qualcosa o scarseggiava il personale, dovevo brigare con la direzione per ottenere quanto necessario. Adesso, se c’è qualche bisogno, devo solo pregare il Signore».

Qual è la morale di questa storia, se ne volessimo cercare una?

«E’ che la mano del Signore c’è sempre: a volte la individuiamo, a volte no. Domenica leggeremo in Isaia di Ciro, il re della Persia, che avrebbe fatto in modo che gli Israeliti potessero ritornare alla terra promessa dal loro esilio in Babilonia. Un fatto incomprensibile, se non lo si guarda con la fede. Come una vocazione in tarda età».

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